L’intervista a Matrice Teatro

Matrice Teatro è una giovane compagnia di attori diplomati presso l’Accademia Galante-Garrone di Bologna. Già ieri, 4 dicembre, presentano a Sondrio l’atto unico Una cosa bella, e ben presto torneranno in Valtellina con la loro seconda produzione: “Funambole”, un progetto totalmente al femminile che debutterà allo Spazio Centrale domenica 19 dicembre. Proprio per questo, ho incontrato le tre giovani attrici, scrittrici e registe – Virginia Cimmino, Irene Papotti e Claudia Perossini – in una videochiamata in cui abbiamo chiacchierato un po’ di tutto: teatro, spettacoli in ucraino, pasta all’amatriciana…

Iniziamo questa chiacchierata parlando della vostra compagnia: Matrice Teatro. Come nasce? E perché avete scelto questo nome?
Claudia: Matrice è un sodalizio artistico che nasce già dai tempi dell’Accademia. Ci siamo sempre trovati e scelti e, una volta diplomati, abbiamo deciso di provare a intraprendere il mestiere di attori insieme. Nasce inizialmente con il piccolo nucleo di Una cosa bella per poi estendersi col progetto Funambole. Il nome nasce da un malinteso di Alberto (Camanni, attore sondriese, n.d.R.), convinto che la pasta all’amatriciana si chiamasse “matriciana”, e da qui deriva “matrice”. La versione più romantica, invece, si rifà a matrix, origine, quindi un riferimento all’inizio di questo percorso e alla passione originaria che ci ha spinto a fare teatro insieme, un teatro poetico e di figura.

Pensando sia a voi come singoli artisti, sia come parte di questa compagnia, qual è la vostra idea di teatro? E cosa dovrebbe essere, per voi, il teatro?
Claudia: Come allievi attori, il teatro è una necessità e una responsabilità. Abbiamo un mezzo comunicativo attraverso cui parliamo di temi che a volte possono non riguardarci direttamente, ma lo facciamo trovando un appiglio alla vita di tutti i giorni.
Virginia: Il teatro è uno strumento per generare domande, in primis a me come operatrice, attrice, scrittrice, ma anche come cittadina. Per me il teatro è uno strumento totalizzante, che inevitabilmente entra nella mia quotidianità, nel modo in cui processo le cose.
Irene: È come se avessimo degli occhiali, un filtro che fa stare meglio me e gli altri. Il teatro è necessità perché dà profondità di sguardo e di sentimento; ti rende un “supereroe” perché ti permette di essere tutto.
Claudia: Ecco, forse una cosa importante da dire è che per noi questa necessità, questo filtro che abbiamo, riguarda noi tanto quanto riguarda chi viene a vederci. Questo perché vogliamo generare domande. Abbiamo un’idea di teatro biunivoco, creiamo un filo rosso tra noi e il pubblico, che deve essere coinvolto.

Quindi per voi è un teatro pubblico, per tutti, non elitario?
Claudia: Certo, ma dobbiamo tenere conto che noi siamo nate e cresciute in un contesto, e che quindi spesso raccontiamo una realtà che, da questo punto di vista, può essere elitaria. In Funambole facciamo tre autoritratti e ci portiamo dietro un bagaglio personale, culturale, di classe, di esperienze limitato rispetto a chi ci viene a vedere.
Virginia: Poi Funambole è una cosa, chissà come saranno i progetti futuri! Ci piace l’idea di studiare e approfondire anche realtà diverse dalle nostre, toccando sempre gli argomenti con i guanti, come se fossero dei ninnoli di cristallo. È un processo di crescita, di lavoro che stiamo affrontando insieme. Per quanto riguarda il teatro elitario, per me è una domanda spinosa… Il teatro crea una bolla. Infatti ha bisogno di uno spessore che non per forza è inaccessibile a tutti, ma che deve garantire una sua poetica.
Claudia: Chi viene a teatro infatti deve scendere a compromessi, deve entrare in questa bolla. Quindi, elitario nel senso che deve esserci la sensibilità di entrare dentro uno spazio altro dalla realtà. Insomma, bisogna essere disposti a scendere a compromessi con la finzione, ad accettare un dispositivo. Poi magari lo si mette in dubbio, ci si fa delle critiche costruttive (senza le quali non si può fare il nostro lavoro), però è venuto a giocare, a partecipare.

Veniamo ora a Funambole. Come già sa chi ha visto i profili social di Matrice Teatro o ha partecipato al crowdfunding che avete organizzato, Funambole è un progetto totalmente al femminile che debutterà il 19 dicembre a Sondrio. Da cosa è nato questo tentativo? E da cosa siete partite per realizzarlo?
Irene: Parto un po’ prima, da quando eravamo in Accademia. Abbiamo avuto l’impulso a lavorare su qualcosa di prettamente femminile quando abbiamo fatto un adattamento di 7 minuti di Massini. Dopo l’Accademia ci siamo sentite – in videochiamata per di più, perché c’era la pandemia – e Claudia ha proposto un’idea che partiva da una classe: c’erano tre ragazze, dei banchi di scuola… Ci siamo trovate prima a San Giovanni in Persiceto, che è dove sto io, e abbiamo iniziato a lavorare dentro a una piccola stanza neutra, che non è uno spazio teatrale ma uno studio. Abbiamo iniziato a sviluppare lo spettacolo. Questo lavoro, a differenza di Una cosa bella, non è stata una filata di un mese, ma una serie di periodi in vari posti. A Sondrio, dove ci ha invitate Alberto, abbiamo conosciuto Maurizio di Spazio Centrale, che ci ha dato grande fiducia visto che ancora non avevamo nulla di pronto. Mi ha scaldato il cuore avere una persona che non ci conosceva che ci ha detto “io credo in voi; vi chiedo solamente come pagamento di questa residenza di portarmi quello che farete, a scatola chiusa.”
Virginia: Io mi ricordo la prima riunione in assoluto. Tutte e tre avevamo i nostri diari scritti durante il periodo dell’adolescenza. Ci siamo guardate negli occhi e abbiamo iniziato a raccontare una serie di esperienze che ci sono capitate nella nostra vita, e appena una terminava di raccontare l’altra diceva “ah, ma è successo anche a te!”, e così si è creata una catena di racconti. Dopo tre, quattro ore a parlare, abbiamo cercato di trovare il punto alla base di queste esperienze condivise. Siamo arrivate a dire che noi siamo frutto di una serie di esperienze e di un contesto, ma che non siamo costrette a restare come ci hanno plasmato, possiamo cercare di prenderci uno spazio.
Claudia: Per questo abbiamo fatto una riflessione sullo spazio: lo spazio dove nasci, lo spazio che ti prendi durante l’adolescenza, e lo spazio dell’età adulta, che è la commistione degli ultimi due. Nel tempo abbiamo poi deciso di tirare dentro al progetto la nostra direzione artistica: Giulia Argenziano e Beatrice Sancinelli, che sono rispettivamente una scenografa e una regista cinematografica, alle quali abbiamo affidato tutto ciò che riguarda l’aspetto estetico.

Qual è il vostro obiettivo?
Claudia: Due delle domande/affermazioni che vorremmo suscitare con questo spettacolo sono: “cazzo, è successo anche a me, non sono solo” e “chissà quante volte ho avuto davanti questa situazione e me ne sono reso conto”. Non vogliamo fare la morale, ma vogliamo dare degli occhiali e invitare a guardare il mondo attraverso il nostro filtro. Una parte importantissima di questo progetto è il dialogo che segue, in base a cosa è stato suscitato nel pubblico. Ci piacerebbe molto se le persone ci raccontassero, coi loro tempi, cosa hanno provato, perché il nostro è un lavoro in divenire.

Mentre lavoratave a questo progetto, avevate in mente un pubblico ideale?
Virginia: Sicuramente c’è la fascia dei nostri genitori, per far sì che si immedesimino in quello che viviamo quotidianamente. Poi c’è l’obiettivo di raggiungere ragazzi e ragazze, e far sì che questo nuovo modo di vedere il femminile possa diffondersi in fretta, liberandoci dagli stereotipi e facendoci ragionare sulla nostra identità e su come ci si relaziona col mondo.
Claudia: In tutti i testi che abbiamo scritto ho sempre notato l’ago pungente diretto a una persona (o a una categoria di persone) che vorremmo venisse al nostro spettacolo.
Irene: Credo valga per tutte… Siamo arrivate a un punto di maturazione, di metabolizzazione tale delle cose che ci sono successe, per cui dobbiamo tirarle fuori, offrendole come se fossero una torta: una volta amalgamata e cotta, te la faccio mangiare. Alcune cose che ho scritto hanno il filtro dell’ironia pungente: anche se ho vissuto degli eventi con frustrazione, ora te lo racconto con ironia, facendoti ridere e poi chiedere perché lo stai facendo. Non facciamo la morale: te le porgiamo, e, se sei ricettivo, tiri le tue conclusioni.

Ci dite alcuni spettacoli che voi consigliereste per ragionare sul teatro? Dei testi che hanno costruito il vostro gusto?
Virginia: Il primo che mi viene in mente è L’abisso di Davide Enia: lui mi incanta per come parla, per come gesticola, per l’apparato musicale che sceglie…
Irene: Direi Vino di Kornijag.
Claudia: E anche Bad Roads di Tamara Trunova. Li abbiamo visti insieme, ne abbiamo parlato a caldo e a freddo. Poi il secondo era in ucraino, e sapevamo solo la storia a grandi linee quindi ci siamo fatte dei viaggioni che ci hanno un po’ influenzato, visto che in quel momento eravamo in pieno sviluppo creativo di Funambole. Io poi citerei, come influenza sia per Una cosa bella sia per Funambole, Macbettu di Alessandro Serra, perché la qualità dell’immagine metaforica, del teatro di figura in Serra è ciò che per me, personalmente, è geniale. Non per scelte registiche, ma per contenuti uno spettacolo che mi ha fatto riflettere è Lingua Madre di Lola Arias. Quando l’ho visto, ho capito che funziona portare sul palco esperienze personali del personaggio. C’è sempre infatti il timore che il pubblico non empatizzi col personaggio perché non ha avuto quelle esperienze.

L’ambiente teatrale, come quello culturale in generale, è prettamente maschile. Spesso le attrici, e le artiste in generale vengono relegate in un angolo. Essere artiste in un mondo principalmente dominato da uomini è una continua sfida. In tal senso, quali sono le vostre più grandi paure, e cosa vi spinge a continuare il vostro lavoro?
Virginia: Quello che mi spinge ad andare avanti è che ci sono persone con cui mi trovo bene a lavorare, che rispettano il mio pensiero e che non mi mettono da parte perché donna. Quello che mi spinge anche ad andare oltre, è che quando ci sono problemi anche all’interno della compagnia, i ragazzi che fanno parte del nostro gruppo sono aperti al dialogo, a cercare di capire se ci sono pregiudizi, se c’è una qualità di ascolto inferiore nei nostri confronti. Detto questo, sì, mi spaventa, perché l’ignoto spaventa sempre. Non so che situazioni dovrò affrontare, ma so che mi interessa fare il mio lavoro al meglio, quindi andrò avanti. Spero di incontrare gente che non mi dia problemi da quel punto di vista; se succederà, sarà un momento di crescita… di rabbia profonda e crescita.
Irene: La rabbia è un motore!
Virginia: E allora crescita!

Siete appena all’inizio di questo percorso artistico, e quindi avete ben presenti le prime difficoltà che si affrontano, soprattutto quelle impreviste. Quali sono state, e come le avete affrontate?
Virginia: Prima problema in assoluto: gli spazi. Noi siamo fortunate, perché abbiamo incontrato gente, nel nostro percorso, che ci ha aperto porte, ma non sempre è così (e noi all’inizio ce ne siamo accorte, perché abbiamo avuto difficoltà). Seconda cosa: il gruppo e come si lavora in gruppo. È importante la comunicazione, perché nei periodi di prova passiamo molto tempo insieme. Terzo, che deriva dal secondo, la scrittura collettiva e la scrittura di scena, che è estremamente difficile, complessa. E come quarto, le specificità tecniche che si imparano solo vivendo il palcoscenico. Americane, cavi, microfoni, cala giù, scendi… Quando hai la fortuna di avere dei professionisti che già masticano quel luogo è tutto più semplice, se devi partire da zero diventa una bella avventura. Infine, la problematica economica, che è il motivo per cui noi abbiamo fatto il crowdfunding.
Claudia: Io vorrei aggiungere anche la difficoltà di farci prendere sul serio. Mi preme molto sottolineare il paradosso del “non ti prendo perché non hai esperienza, ma per fare esperienza ti devo prendere”. Abbiamo incontrato delle persone a cui ci siamo affidate, e che si sono fidate del nostro progetto perché hanno visto la nostra energia, la nostra voglia di fare. Abbiamo anche incontrato persone, però, che ci hanno detto “ma non vi conosce nessuno, non lo riempite questo posto”. Peccato che solo abitando lo spazio lo impareremo a gestire! Abbiamo bisogno che le persone ci diano una possibilità, come stanno facendo le persone che hanno donato e che ci hanno aiutato.

Benedetta

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