Chiunque scrive, che sia un autore a livello amatoriale o qualcuno di già avviato nel mondo dell’editoria, si sarà trovato a un certo punto davanti all’annosa domanda:
Perché scrivi?
È una questione complessa, a cui è difficile rispondere. Infatti, per quanto sia convinta che tutti i buoni autori siano stati innanzitutto influenzati e spinti dalla lettura di un lavoro altrui, ognuno ha la sua esperienza a cui far capo e delle motivazioni intrinseche che non si possono generalizzare: il desiderio di evasione, la voglia di costruire qualcosa di proprio, l’ambizione di rivalsa e – perché no? – il fatto di sapere che si è bravi sono tutte delle ottime motivazioni.
C’è un romanzo meraviglioso, dedicato a Salgari e alla sua vita (Disegnare il vento di Ernesto Ferrero), nel quale c’è un passaggio in cui si riflette proprio su questo tema:
“Si scrive per vivere molte vite. La tua non ti basta, già decisa com’è dal principio alla fine. Si scrive perché ti senti stretto. Perché vuoi essere un altro. Perché vuoi essere considerato e stimato. Perché hai bisogno di qualcuno che ti dica bravo. Perché sei povero. Perché ti vergogni della casa dove stai. Perché non vuoi fare il mestiere che fa tuo padre. Perché non hai soldi per viaggiare. Per pagarti le donne che vuoi, quelle che vorresti portare al ristorante o all’opera. Perché vuoi fargliela vedere a qualcuno, ai prepotenti, agli invidiosi.”
Ovviamente, da quando ho preso in mano la penna virtuale per cimentarmi io stessa nella scrittura, mi sono chiesta perché io scriva, e la risposta è stata abbastanza immediata. Scrivo perché mi fa sentire bene. La pagina bianca, panico per chi la approccia la prima volta, è il mio spazio di libertà assoluta dove posso agire senza alcuna preoccupazione – se non la linearità e il buon senso di ciò che sto costruendo. Posso affrontare la giungla delle mie idee e affettarle a colpi di machete, perché è qualcosa di mio, che nessuno potrà mai togliermi.
Tuttavia, a un certo punto mi sono trovata a riflettere sul perché, tra tutti i generi esistenti, fossi inciampata proprio nel fantasy. E la risposta, purtroppo, non è stata altrettanto semplice o romantica – in fondo, sono una nostalgica incallita a cui piace l’archetipo dell’autore innamorato di ciò che fa e spinto all’azione perché è l’unica cosa in grado di farlo respirare.
Non è scontato scovare il motivo per il quale mi sono avvicinata a un genere così carico di sfide. Sarebbe bello poter affermare che la lettura de Il Signore degli Anelli mi ha plasmata a tal punto da darmi una spinta verso il calderone del fantastico, ma non è così; per quanto lo ami e mi renda conto dell’importanza che ha avuto su di me, non è stato l’effettiva molla – al massimo un tocco in punta di dita che si è aggiunto a qualcosa di più profondo.
Credo che il motivo sia quindi un altro. Il fantastico ha sempre avuto un grande appiglio su di me, fin da quando ero bambina; amavo le favole dei fratelli Grimm, antesignane importanti di diversi topoi della letteratura fantastica, provavo una sorta di venerazione per il Peter Pan e il suo mondo lontano fatto di fate, sirene e pirati e, appena ho imparato ad apprezzare la lettura, la mia bussola di è orientata verso i classici e il fantasy, in una perfetta sintesi dei miei interessi precedenti. È qualcosa che ti bolle nel sangue, insomma, e forse non potrebbe essere altrimenti.
Nessun autore con un minimo di conoscenza del mestiere, infatti, penserebbe che scrivere un fantasy sia semplice. Oltre alle sfide poste dalla narrazione classica – quali la necessità di presentare personaggi tridimensionali e credibili e il definire una storia coerente e senza buchi –, ci sono diverse problematiche da affrontare. Prima tra tutte, il dover costruire una realtà a parte, e poco importa se è inventata da zero come accade per Sei di corvi di Leigh Bardugo, o sia un ibrido tra la nostra realtà e qualcosa di nuovo, come è con la serie di Percy Jackson e gli dèi dell’Olimpo di Rick Riordan: il mondo creato deve essere funzionale e credibile. A un occhio poco attento potrebbe sembrare una questione facile da risolvere – basta parlare di magia e si risolve tutto, no? –, ma non è così. Il costruttore di mondi è a tutti gli effetti tale: non c’è dettaglio che non conosca, dalla geografia alla storia, dalle sfumature che distinguono le popolazioni presenti ai primi passi mossi da un personaggio… È demiurgo e spettatore allo stesso tempo, piegato dalla responsabilità datagli dalla sua stessa storia, che chiede che lui sappia tutto, che conservi e trasmetta.
E quindi via alle pagine e pagine di appunti, ai quaderni scritti male e i riassunti su Word, ai pomeriggi trascorsi a cercare informazioni per capire se ciò che si ha in mente è sensato o da buttate, alle ore trascorse a scrivere non solo perché si è presi dalla mera azione materiale, ma anche perché è necessario controllare se ciò che si sta facendo è corretto o stride. In quest’ottica diventa normale che alcuni autori impieghino anche anni per buttare giù solo la prima stesura.
È spaventoso rendersi conto dell’esistenza di un processo del genere, non lo nego. Ci vuole coraggio per intraprendere un’impresa simile, molto più di quanto sia necessario per prendere una penna in mano e scrivere una storia ambientata ai giorni nostri e in una realtà nota – scissione che conosco bene, vista l’ecletticità che mi porta a sciabordare da un genere all’altro. Ci vuole anche una sana dose di pazzia – non potrei affermare mai nulla di differente, pensando ai lavori di Brandon Sanderson, Robert Jordan o ancora di George Martin, che tra i tre è quello che ha prodotto l’opera più semplice – e un discreto desiderio di non fare nient’altro nella vita, perché alla fine ci rimani invischiato, nulla di più o di meno.
In luce di tutto ciò la domanda di partenza diventa ancora più insidiosa, ma la riposta più limpida e onesta.
Perché scrivo fantasy?
Perché c’è della bellezza.
Perché mi ricordo di come da bambina sgranavo gli occhi quando leggevo e perché certe volte lo provo ancora.
Perché voglio donare le stesse sensazioni.
Rebecca