La belle dame sans merci

Parte prima

Perché sei qui?
Sdraiata per terra, la schiena nuda premuta sulle piastrelle, guardo i fiori fuori dalla finestra. Li vedo chinarsi, piegati dal debole vento di questa calda giornata. Il canto degli uccelli, che per ore mi ha tenuto compagnia, si è già smorzato. Non sento più nulla.
Perché sei così triste? Il sole è alto, il cielo è terso. Solo tu, triste, trascini le tue giornate.
Chiudo gli occhi. Al buio, le voci sembrano attutirsi, perdersi, sparire. Al buio, sono finalmente sola.
Il mondo è in festa. La senti quella risata? È un bambino. Perché, perché tu non sai essere come lui?

Un peso mi schiaccia il petto, costringendomi a strisciare sul pavimento fresco. Mi trascino fino allo specchio. Facendo leva sui gomiti mi alzo quel tanto che mi basta per vedere il mio volto riflesso.
Più volte mi hanno costretta a guardarlo. Mi hanno chiesto ti piaci ora? Ti piaci ora che gli occhi sono infossati, le guance scavate e le labbra esangui? Mi hanno urlato ti odi, tu odi te stessa e si vede, lo si vede nei tuoi occhi stanchi. Ed è vero: mi odio. È vero che mi disgusta vedere questo colore cereo, questi capelli sporchi. Ma questa repulsione dura sempre un istante solo. Perché poi mi sento addosso una gran stanchezza, e ho solo voglia di dormire.

Mi dico che ci penserò dopo, a tutto questo.
Dopo, quando avrò dormito abbastanza.
Stremata, mi lascio cadere a terra.

È passato già un anno. L’ho realizzato l’altro giorno, mentre mia madre toglieva dalla parete il mazzo di fiori che lei mi aveva regalato e che io avevo messo a seccare. L’ho realizzato proprio mentre i fiori cadevano nel sacchetto della spazzatura. Li ho visti sparire e mi sono detta oh, è già un anno. Poi più nulla. Non una lacrima, non un altro pensiero. Solo la consapevolezza che le lancette dell’orologio, che ora paiono ferme, sapevano muoversi velocemente.
Di un anno intero non mi rimangono che alcune foto nascoste tra le pagine di vecchi libri. A volte, quando sono sola, le vado a cercare. Non so nemmeno perché lo faccia. Forse per assicurarmi di non aver dimenticato nulla. O forse perché nel vederla impressa su un foglio, lei mi pare vera, e non un bellissimo sogno ormai sgretolatosi alla luce del sole.

Guardo le foto. La vedo lì, sdraiata sull’erba. I lunghi capelli le accarezzano la schiena, le gambe nude sono stese sul prato, le dita dei piedi sfiorano uno specchio d’acqua.

A volte, guardando le foto, ho l’impressione di ammirare un quadro pre-raffaelita. La perfezione di quella chioma fulva, la pelle pallida, gli occhi di un melanconico blu… È una creatura celeste, mi dico. O forse una fata.

Un anno fa. Il profumo di fiori e le risate nell’aria, la dolce brezza e il canto degli uccelli. Mi era stato chiesto di esibirmi al pianoforte durante una festa privata. Avevano richiesto una scaletta banale: Beethoven, Chopin, qualcosa di Mozart. Tutti brani più che noti. Non appena l’ultima nota aveva smesso di vibrare, ero scappata in giardino. Poi, mentre passeggiavo sola e scalza, incontrai una ragazza dalla chioma fulva e dai grandi, selvaggi occhi blu. Insieme ci sedemmo all’ombra di un ciliegio, e iniziammo a parlare. La voce melodiosa, la deliziosa cadenza melanconica; sul ritmo delle sue parole mi misi a intrecciare una corona di fiori. Avrei dovuto imparare a farle da bambina, disse osservando le mie dita che intrecciavano i gambi. Un riso riempì l’aria quando le poggiai la corona sul capo. Cercai di guardarla negli occhi, curiosa di cogliere cosa essi celassero, ma lei abbassò il capo in fretta, le guance tinte di rosa.
Non so in quell’istante quanto importante ciò mi parve. Forse solo ora, a un anno di distanza, mi sembra di vedervi il significato di tutto.
A mezzanotte, noi sedevamo ancora in quel giardino spoglio e freddo, circondate dai resti di una festa ormai consumata.
Potresti darmi un passaggio a casa?
Annuii.

Lei era lì, seduta accanto a me, i piedi appoggiati sul cruscotto e la tempia premuta contro il finestrino. Non era mai stata lì prima di allora, eppure sembrava che quello fosse il suo posto, che solo con lei lì, a cantare a mezza bocca le canzoni che passavano alla radio, un viaggio potesse avere senso.
Cosa eravamo, noi, in quel momento? Due persone che si erano incontrate per caso a una festa e che ora tornavano a casa. Ma eravamo davvero solo questo? Eravamo davvero così poco? La sentivo respirare e ridere tra un verso e l’altro, e mi pareva di conoscere quella risata e quel respiro da tutta la vita.
Parcheggiai. Lei si sporse verso di me.
Sali da me, mi sussurrò. Un attimo di esitazione. Solo un momento, ti prego.

Posso ancora sentire il suo respiro sulla mia pelle.

Benedetta

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