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Gli detto le frasi più libere e il mio compagno di cella, un ragazzo che, mi ha detto, ha vent’anni, ferite sulla schiena e lunghi baffi, me le scrive in strisce di carta che nasconde nei tacchi. Non so se le butta giù pari pari, perché non me le rilegge mai. Magari scrive apposta frasi opposte che gli sembrano meno pericolose. Le parole lo sono: pericolose. Una volta ne ho pronunciate cinque a una riunione e anche se a quel tempo non ero cieco, non mi sono proprio accorto che tra noi c’era un infiltrato. Quando, nella mia soffitta, son venuti a prendermi, ho provato a muovermi come i topi. Ma per ultimo ho fissato il lucernaio. Dopo che mi hanno incarcerato mezzo mondo è sceso in piazza a urlare il mio nome come se fossi una patria. Sono stati i torturatori a rendermi così, cioè le conseguenze di quel che mi hanno fatto giocando con l’elettricità. Poi hanno parlato di nervi, ma quelli mi erano già saltati prima, in mezzo a loro che ridacchiavano, quando ho chiesto di mia mamma piagnucolando. Adesso posso vedere quel che voglio e cambiare continuamente carta da parati al cielo e alle pareti. La gente non urla più il mio nome e forse non lo scrive nemmeno sui muri o se lo fa, la cosa succede di notte, sempre prima che qualche gallo canti. Intanto son passati ventotto anni. E di cose nere ne ho viste. A volte mi immagino un cieco felice, tra le vie del Viale della Libertà, col mio bastone, lo stesso che avevo da pastore nei miei monti, lo stesso con cui aiutavo la madre di mia madre ad attraversare, lo stesso con cui mi hanno picchiato. Sempre quello e ogni volta diverso. Mi immagino tra gente libera che può urlare quel che vuole e che non ha più bisogno di urlare il mio nome. Anche perché ormai l’avranno scritto in una piazza. Magari in braille. Da toccare con dita lavate di sangue.
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Ho visto persone di cenere ricomporsi al soffio di uragano di una piazza
Ho visto statue di vento di eroi abbattuti dopo morti
Ho visto mio padre, con la barba nera dei trent’anni, che inveiva davanti allo specchio contro quello che
inveiva contro di lui
Ho visto il buio prendere più sfumature della luce e il buio più assoluto si chiamava “mai più”
Ho visto tutto quel che non ho visto
Ho chiamato le persone con i nomi dei fiori e dei mesi dell’anno. E più di tutti, nei miei occhi, è durato maggio
Ho visto il mio paese appassire come un fiore di plastica e i miei diritti scadere come yogurt bianco
Ho visto il dittatore giurare sulla costituzione con una faccia buona e un’altra di cui non voglio pronunciare la parola
Ho visto un universo a forma di quadrato con dentro la forma del mio sogno
Ho visto il mio nome sul muro, che diceva che vivevo, e io ci credevo solo perché lo vedevo.
3
Non vorrei riacquisire la vista se è per perderla di nuovo.
O per vedere che nulla è cambiato tranne me.
In questa cella conto i giorni con le tacche sul muro. E ogni giorno riparto da zero
Oggi sono un giorno meno vecchio di ieri
Oggi sono un giorno meno bravo a contare di ieri
Da domani smetterò di fare nuove tacche
Tanto è sempre l’ultimo giorno
Tanto è il primo degli ultimi giorni
L’importante è quel che capita nel buio
Lì nessuno può scoprirmi
Solo nel buio un uomo libero è libero.
4 – I CIECHI CONOSCONO I CIELI
I ciechi conoscono i cieli
e spesso hanno un loro concetto
degli arcobaleni
Più di tutto sono esperti di spazi immensi
e di giorno vanno di notte nei deserti
Ci vuole immaginazione
per credere nelle rose
ci vuole un bel po’ d’esperienza
per setacciare la realtà dall’apparenza
A volte un cieco giovane
si scopre un cieco vecchio
ma ho visto ciechi che hanno visto ciechi
che hanno visto ciechi
che hanno visto se stessi allo specchio
Simone Consorti