Piercamillo Davigo, un nome che certo non ha bisogno di presentazioni, ci ha fatto l’onore di farsi intervistare – peraltro in un momento per lui delicato, data la richiesta di rinvio a giudizio avuta solo pochi giorni fa [l’intervista viene registrata il 26 novembre, N.d.A.], di cui parleremo. Prima di entrare nel vivo del dialogo, però, vorrei che ci parlasse del Piercamillo Davigo che, forse, conosciamo un po’ meno, e cioè del percorso che l’ha condotta fino a oggi.
Sono laureato in Giurisprudenza, all’Università di Genova. Io sono originario della provincia di Pavia, ma all’estremo confine col Piemonte, e dunque né Pavia né Milano erano facilmente raggiungibili; così, avendo un prozio a Genova, ho intrapreso lì i miei studi. Dopo l’Università ho fatto il Servizio Militare, e dopo quello sono andato a Torino a fare – per dirla in termini chiari – il sindacalista degli imprenditori, questo per un paio d’anni. Da lì, ho vinto il concorso per la Magistratura, e mi hanno assegnato al Tribunale (ora soppresso) di Vigevano. Dopo poco più di un anno, fui trasferito alla Procura di Milano; erano anni molto difficili (di preciso il ’78, l’anno del sequestro-Moro), e lì mi occupai di attività generiche legate e poi al mondo della criminalità organizzata (dal 1982 al 1986), per entrare anni dopo nel pool di Mani Pulite, dal 1992. Passato qualche anno lì, nel 2000 sono poi andato in Corte d’Appello, ove sono stato 5 anni – sempre a Milano. Da lì, ho fatto dal 2005 al 2013 il consigliere (cioè giudice a latere, per intenderci) della Corte di Cassazione, per poi diventare Presidente di Sezione; nel 2018 sono stato eletto al Consiglio Superiore della Magistratura e nel 2020 sono stato collocato a riposo. Questo è il mio iter professionale.
È notizia recente la richiesta di rinvio a giudizio legata al caso della Loggia Ungheria. Ora, io non le nascondo che, dei giornali italiani, soprattutto per quel che riguarda vicende investigative, riesco a leggere solamente Il Fatto Quotidiano. Ed è proprio in un editoriale recente [ci si riferisce alla data di registrazione dell’intervista, N.d.R.] che, su quel giornale, veniva mostrato come la maggior parte dei giornali avesse gioito di questa notizia. Ora vorrei chiederle: dal momento che è del tutto evidente come si stia confondendo il dito con la luna, se qui su Bottega di idee volessimo parlare della luna che cosa dovremmo dire?
La risposta è difficile perché c’è un procedimento in corso; in ogni caso, non riesco proprio a essere preoccupato, da quanto mi pare sconclusionata questa richiesta – peraltro, è il mio ventisettesimo procedimento con la Procura di Brescia, quindi sono abituato, e l’ho sempre considerato uno degli effetti collaterali di chi fa questo lavoro seriamente. Questa vicenda, comunque, è molto semplice: è venuto da me il sostituto Procuratore di Milano (Paolo Storari), quando io ero al CSM, e mi ha detto che aveva raccolto, insieme a un altro magistrato, delle dichiarazioni di tale avvocato Amara, che parlava di una Loggia coperta – dichiarazioni raccolte all’inizio del dicembre 2019, e all’aprile 2020, non era ancora stata fatta nessuna iscrizione, mentre l’articolo 335 del Codice Penale dice che bisogna procedere all’iscrizione della notizia di reato immediatamente. Io gli dissi che la prima cosa che doveva fare era mettere per iscritto quanto mi aveva detto, conscio del fatto che in questo Paese vige la prassi che, contrariamente a quanto ogni buonsenso prescriverebbe, di qualunque evento sgradevole risponde sempre più il basso in grado presente in quel momento – dovrebbe essere il contrario, ma purtroppo funziona così, e infatti parecchi, anche a livello giudiziario, se la sono presi col povero Storari. Io subito esclusi quanto di norma prevede una circolare del Consiglio, cioè di dire a Storari di inviare il plico riservato al CSM, perché ero stato testimone oculare dell’assoluta inaffidabilità del plico riservato. Alla fine della riunione della prima commissione, nella vicenda relativa a Palamara, venni a sapere che addirittura era coinvolta una persona facente parte della prima commissione, e dunque la strada del plico riservato era evidentemente non seguibile, visto che erano indicati come appartenenti alla loggia due componenti del CSM in carica; l’unica plausibile (cosa che proposi a Storari e poi feci) era fare da tramite per metterlo in contatto con il Comitato di Presidenza. Il 4 marzo, sono certo della data perché riprendevano le sedute in presenza del Consiglio, arrivato a Roma, chiesi a Storari se avessero effettuato l’iscrizione, e mi disse di no – nonostante le sue sollecitazioni scritte. Così chiamai il Vice Presidente del CSM dicendogli che dovevo parlargli di una cosa urgente e importante, e lo informai dell’accaduto, cosa che qualche giorno ripetei al Procuratore Generale, perché ritenni che quello fosse l’unico modo di procedere senza far trapelare notizie sull’indagine. Dopodiché informai alcuni componenti del Consiglio Superiore, di cui mi fidavo, mentre non lo dissi ad altri perché non era necessario. Ecco: la Procura di Brescia, in breve, mi accusa di aver istigato Storari a riferire di queste cose – quando io, prima che lui chiedesse di parlare con me di questo, non sapevo manco che esistesse la Loggia in questione.
Prima di parlare di giustizia teorica, se lei è d’accordo, mi piacerebbe domandarle ancora due cose. Ovverosia: da una parte, l’argomento principale dell’incontro di Bookcity nel quale ci siamo incontrati, cioè Mani Pulite trent’anni dopo; dall’altra – e scelga lei se fare un’unica risposta o farle differire – il fenomeno delle mafie, e in particolare la verifica di un principio popolare a tutti noto, e cioè che meno si parla della mafia, e meglio la mafia sta. È davvero così? Perché, se sì, mi viene da dire che stanno davvero benissimo…
Allora: mafia e corruzione sono due fenomeni diversi, anche se sono correlati tra loro. Nel senso che, come diceva Angelo Epaminonda, con i morti non si fanno affari. Quando può, insomma, il crimine organizzato ricorre alla corruzione; in secondo luogo, la corruzione è un reato particolare: è normalmente seriale, anche se non necessariamente. Immaginarsi un corrotto si fa corrompere una volta sola è come immaginarsi una prostituta che ha un rapporto una volta sola – per quanto teoricamente possibile, non è dato riscontrarlo. In secondo luogo è diffusivo: chi fa uso di queste pratiche cerca di coinvolgere altre persone. Se per esempio un impiegato pubblico divide l’ufficio con un altro impiegato pubblico e lo sente dire certe frasi o uscire spesso a parlare con un privato cittadino, può destare sospetti – se invece si divide con lui la tangente, è sicuro che non segnalerà alcunché. Se io vendo la droga e uno non mi paga, non posso riferirmi al giudice, ovviamente; in quei casi, di solito ci si basa sulla fiducia reciproca, sia dal lato dei corruttori che quello dei corrotti. Per verificare l’effettivo funzionamento del mercato illegale e la sua corretta strutturazione, usualmente, ci si riferisce al crimine organizzato – ecco il punto decisivo in cui mafie e corruzione si intersecano.
L’ultima domanda che dedicherei all’attualità: io ero fra i molti interessati a seguire, in diretta, alla Festa del Fatto Quotidiano, il suo incontro con Nicola Gratteri e Roberto Scarpinato, “La giustizia al tempo dei migliori”. E dunque vorrei chiederle questo: le sue idee sulla Riforma Cartabia sono molto note. Oltre a dirci cosa ne pensa, vorrei dunque che ci dicesse quale tipo di logica sia intervenuta per dare adito a una riforma così pasticciata e forse volutamente pasticciata.
Mah, di logica direi che non ce n’è proprio, neanche la parvenza. C’è una stravaganza, semmai: è vero che l’UE ci chiede di risolvere il problema della durata dei procedimenti – più della giustizia civile che non di quella penale, peraltro. Ora, nessuno si chiede perché i procedimenti durino tanto: i procedimenti durano tanto perché sono troppi, e sono troppi per due ragioni: in primis, i processi sono scarsamente efficaci. Se una persona viene processata 4-5 volte per lo stesso tipo di reati, questo non genera alcuna deterrenza nei riguardi degli autori di reati. Faccio un esempio: ero di turno a San Vittore per le convalide degli e fra gli arrestati c’era un borseggiatore cileno. Io vidi che era la quarta volta in cui era arrestato solo in quel mese! Così gli chiesi come mai, e lui mi fece un sorriso bellissimo dicendomi “Che bel paese che è l’Italia!”. E proseguì: “Tre anni fa sono stato arrestato a Ottawa e sono uscito due anni e mezzi dopo a pena espiata”. Ecco, nei Paesi seri funziona così – mentre da noi ci sono le porte girevoli. Allora: è ovvio che in tutti i Paesi al mondo chi viene colto in flagranza viene arrestato. Al di là di questo, comunque, è chiaro che noi facciamo quattro processi quando gli altri ne fanno uno. Risultato finale c’è un aumento esponenziale dei processi. Si è scelto di agire sul termine stabilendo che il processo diventa improcedibile superato il termine: in prima battuta, l’idea era di fare terminare i procedimenti di appello dopo due anni, ma poi si sono resi conto che la durata media dei processi era proprio di due anni e quindi che avrebbero reso tutti i processi improcedibili – e allora hanno aumentato il termine per attuare l’improcedibilità a tre anni e mezzo. Ma è l’idea che è balzana di per sé: supponiamo che si debba fronteggiare il problema dell’orario dei treni, e che si faccia una regola per cui, quando si raggiunge l’orario di arrivo, anche se non si è arrivati a destinazione, il treno si ferma, e i passeggeri scendono in aperta campagna. Oppure supponiamo nella sanità che si dica “allora gli esami devono essere fatti entro due mesi dalla prescrizione, se non è possibile farli in quei mesi non si fanno più” – e il malato muore. Raccontare che questo ce lo chiede l’Europa è una bugia perché l’Europa ci chiede sanzioni funzionali, efficaci e dissuasive, non di far finire i processi in anticipo purché sia!
Riflettendo su quanto appena visto nell’incontro con lei, Gratteri e Scarpinato ho avuto la stessa riflessione che mi era sorta nel 2016, dopo aver letto con grande interesse il libro che lei ha realizzato, insieme a Gherardo Colombo: La tua giustizia non è la mia – riflessione amara di chi, avendo l’opportunità di voci anche talvolta diverse (nel libro vi sono due idee di giustizia che partono e che arrivano da punti di vista diversi), riceve l’impressione del fatto che queste grandi figure non vengano assurte a esempio, come in un Paese (più legalitario) avverrebbe. Come si può, in un Paese così particolare e corrotto, con una quantità di processi simile, e con un debito pubblico di questa portata, a invertire la rotta non tanto e non solo dal punto di vista pratico, quanto proprio di riferimenti e ideali?
Per fare quel che lei dice serve un’etica condivisa, che in questo Paese non c’è. È un’illusione pensare che curare l’interesse personale, senza curarsi dell’interesse generale, sia un modello vincente. Se si è su una barca, col mare in tempesta, e ognuno pensa a ritagliarsi uno spazio più comodo in cui stare, anziché provare a salvare la nave, probabilmente affogheranno tutti, ed è più o meno quel che sta avvenendo in Italia. Nel libro che ho presentato a Bookcity scrivo di un episodio capitatomi di recente: parlo con un professore di Sociologia a cena, dopo un convegno sugli aspetti sociologici della corruzione fatto in giornata, e questo professore mi dice d’esser stato in Nuova Zelanda a studiare la corruzione. Gli chiesi come mai proprio lì, sorpreso dal fatto che si fosse recato in uno dei Paesi meno corrotti al mondo. Mi rispose che voleva capire come mai ci fosse così poca corruzione, mi raccontò un episodio che rende chiara la differenza tra Italia e Nuova Zelanda sotto il profilo del danno reputazionale. Cioè: che conseguenze subisce chi commette questi reati, dal punto di vista dell’opinione pubblica? Sostanzialmente nessuna. In Italia si può mettere nel curriculum che si è stati indagati o condannati per corruzione e non cambia niente – c’è un esempio clamoroso: un manager, che aveva patteggiato la pena per aver pagato tangenti per appalti Enel, è stato nominato, dal secondo governo Berlusconi, amministratore delegato di Enel e poi dell’Eni. In Nuova Zelanda invece un immigrato delle Isole Samoa chiede a un deputato della Nuova Zelanda un favore: il parlamentare gliel’ha fatto e lui ha ricambiato verniciando la palizzata del giardino della casa del parlamentare. Questo fatto è diventato di pubblica notorietà e questo parlamentare è stato: espulso dal partito, espulso dal Parlamento, condannato a sei anni di reclusione, e il popolo neozelandese è piombato in un lutto collettivo chiedendosi come fosse possibile un atto di tal genere da parte di un eletto. Ecco, in Italia il danno reputazione non c’è, e addirittura io (in un certo momento della mia carriera professionale) ho temuto – e dico davvero, non in senso ironico – di avere una sorta di tocco di Re Mida: dopo aver indagato qualcuno, anche se poi veniva condannato, lo vedevo iniziare una brillantissima carriera istituzionale o imprenditoriale. Quindi, anzitutto, cercare di capire questo: se uno antepone il proprio bene individuale a quello collettivo, non c’è speranza. Sono stato di recente a Di Martedì, dove facevano vedere quanti posti letto in ospedale avevano sottratto gli evasori fiscali, quanti posti in rianimazione, e via di questo passo. Ecco: noi siamo abituati a pensare che un evasore fiscale sia un furbo, mentre l’evasore fiscale è un ladro. Si fa curare da ospedali che non ha pagato, usa mezzi di trasporto che non ha contribuito a pagare, si fa proteggere da forze dell’ordine che non ha retribuito, e così via. Siccome i farabutti dicono cose che io non ho mai detto, dicono che io non credo alla non-colpevolezza dei cittadini: non è affatto così, io dico una cosa del tutto diversa: che è del tutto irrilevante sia o no anche reato – ma quel fatto, per la parte non controversa, dovrebbe essere importante oggetto di valutazione in sede etica! Faccio un esempio: un professore di università era uso avere rapporti sessuali con le studentesse prima dell’esame. Ora, che una cosa del genere sia o non sia reato, è irrilevante: un professore, certe cose, non le deve fare, perché dovrebbe trasmettere dei valori, oltreché del sapere.
Cosa aggiungere, se non tanta amarezza? Del resto siamo nel Paese dove Silvio Berlusconi è candidabile alla Presidenza della Repubblica, quindi…
Su questo ho fatto una battuta di recente: un polemista americano di metà Ottocento disse “Quando ero ragazzo mi spiegarono che in democrazia chiunque può diventare Presidente. Comincio a temere che sia vero”.
Dicevo prima che ho letto La tua giustizia non è la mia, ove si partiva da due impostazioni – la sua e quella di Colombo – del tutto diverse. Vorrei chiederle: l’ideale di giustizia – che è quanto probabilmente ha mosso lei nell’intraprendere questo percorso – che aveva è cambiato nel corso del tempo? Il desiderio che vi ha mosso di una società più giusta ha subito modificazione, o l’idea di giustizia che aveva in università si è evoluta o è rimasta uguale?
Ho sempre pensato di fare il difensore di chi era debole rispetto a chi era violento, usando la forza dello Stato. Dopodiché, ho sempre pensato che la funzione essenziale della pena fosse la deterrenza: preoccuparsi cioè che il reato non venga commesso, ragguagliando la pena con la gravità del fatto e con il senso comune di giustizia – indubbiamente se dessimo l’ergastolo a chiunque parcheggiasse in sosta vietata le persone non lo farebbero più, ma ciò non concilierebbe col senso comune di giustizia. Quindi ci vuole una proporzione, insomma. Una volta Colombo mi ha convinto ad andare a parlare con dei carcerati, e uno di questi mi dice: “noi abbiamo commesso ciò per cui siamo qui a causa della tossicodipendenza. Ora non siamo più tossicodipendenti, quindi perché ci tenete ancora qui?” E io risposi: “quando il Codice Penale dice che chiunque cagiona la morte di un uomo è condannato alla pena non inferiore ad anni ventuno, pronunzia una minaccia a scopo di deterrenza: ma una minaccia, per esser credibile, dev’essere seguita dai fatti. Voi siete qui per evitare che altri facciano ciò che avete fatto voi.”. Il problema è questo: se vogliamo vengano tutelati i rapporti umani, l’unico modo è mostrare che, a seguito di certe azioni, vi sono certe conseguenze. Ma le conseguenze ci devono essere, altrimenti non ci crede più nessuno.
Non c’è dubbio. Due domande velocissime e poi concludiamo: da una parte una cosa che nasce da un mio timore, sin da piccolo. Si può entrare in politica tanto onesti quanto lo si è quando, poi, si decide di uscirne?
Non credo che tutti i politici siano disonesti – mai creduto. Però noto che molti sono incerti quando si tratta di espellere colleghi disonesti – perché devo mettermi a fianco di politici corrotti? Poi, ci sono stati esempi di politici di straordinaria onestà: Alcide De Gasperi, per esempio, la prima volta che fu negli USA si fece prestare un cappotto dall’onorevole Piccioni, perché non ne aveva uno decoroso. Ora, che un Primo Ministro sia in condizioni economiche tali da non potersi permettere di comprare un cappotto è segno di indubitabile onestà – dopodiché abbiamo avuto tanti politici che vivevano come nababbi. Ora: il problema sono i valori. Se uno ha dei valori probabilmente rimarrà onesto, se non li ha, no. Poi, personalmente io non ho mai voluto fare politica, e per convinzione personale penso che i magistrati non debbano mai fare politica, perché non ne sono capaci: il vero problema è che non lo sanno fare. Il magistrato, normalmente, ragiona in termini di illecito e lecito, torto e ragione, mentre il politico in termine di utile e dannoso, avversario e alleato – sono due modi incompatibili. Ponzio Pilato ne è un buon esempio: fece fare un referendum su chi assolvere, e di solito nei referendum vincono i Barabba. Non è passato alla storia come un buon giudice.
Ultimo tasto che tocco: abbiamo parlato di giustizia in senso pratico e teorico, riflessioni più o meno amare circa la società italiana e non solo. Dedichiamo l’ultima riflessione al futuro, con una nota di positività, se ci è possibile: quale auspicio ha Piercamillo Davigo per la società che verrà?
Non ho idea di come potrà modificare il mondo la circolazione enorme di informazione che c’è grazie a Internet – anche se devo dire che è favoloso come strumento di reperimento di dati, ma siccome le fake news sono diffuse tanto quanto le notizie fondate, il problema è sulla comprensione delle persone. Una volta ho fatto una lezione all’Università di Bologna giudicata pessimista dalla Docente, che mi chiese di dar una nota di positività ai ragazzi. E io dissi: “emigrate”. Detta un po’ meglio, posso solo far questa considerazione: non può mai essere più buio che a mezzanotte. E io credo che la situazione italiana sia molto vicina alla mezzanotte. Il che non risolve problemi, perché dopo l’aurora c’è di nuovo il tramonto. Un passo di Isaia dice “Sentinella quanto resto della notte? Sentinella quanto resta della notte?” La sentinella risponde: “Viene la mattina, e viene anche la notte. Se volete venite”. Quindi dipende da ciascuno di noi, alla fine.
Federico