Dal 1° febbraio i dipendenti pubblici in Belgio non saranno più obbligati a rispondere alle chiamate dei propri capi dopo l’orario di lavoro. Molto probabilmente il cambiamento influenzerà anche il settore privato, sul quale già si prevede una possibile settimana di 4 giorni lavorativi, testata con enorme successo in Islanda nel 2021.
Il diritto alla disconnessione, dal suono rivoluzionario, in realtà è già legge in svariati Stati. Introdotto per la prima volta nel 2016 dalla Loi du Travail in Francia, era già comparso anche in Italia nel 2017, con la legge 81 sulla regolamentazione dello smart working.
Nonostante ciò, questo diritto non sembra essere né rispettato dai datori di lavoro né rivendicato dai lavoratori. La pandemia ha accelerato i tempi ed evidenziato la necessità di mettere davvero in pratica questo diritto. Infatti, a novembre 2021 il Portogallo ha reso illegale (e di conseguenza sanzionabile) per il datore di lavoro contattare i dipendenti fuori orario. Non è abbastanza garantire il diritto alla disconnessione, quando a livello pratico i lavoratori vengono penalizzati per la loro assenza dalle chat o dalle mail.
È stato normalizzato l’essere contattati mentre si è in vacanza o nel fine settimana, oppure l’organizzare meeting alla domenica, cosa peraltro molto frequente anche in ambiente universitario e accademico. Il fatto è che anche nella nostra vita privata abbiamo sviluppato un culto per l’iper produttività. Siamo talmente impegnati ad essere sempre disponibili che non consideriamo il costo psicologico e umano dell’essere attivi 24/7. Non è sostenibile, a livello umano, esserci sempre per tutti. Secondo uno studio del 2017 pubblicato su Science Direct, la Fomo (Fear of Missing Out) è strettamente collegata a queste dinamiche. L’essere costantemente online ci rende consapevoli di tutto quello che sta accadendo, eventi ai quali non stiamo prendendo parte.
Per ovviare a questo problema, alcuni decidono di cancellare momentaneamente Instagram o Facebook, di “prendersi una pausa dai social,” una frase che è diventata tanto comune quanto paradossale. Se c’è bisogno di prendersi una pausa dalla socialità, forse vuol dire che quella socialità onnipresente è più stressante che piacevole.
Nonostante molti sognino queste pause da tutto e da tutti, si ha la tendenza a lodare l’individuo che “riesce a far tutto,” in quanto siamo stati formati negli anni per poter essere persone sempre connesse e sempre disponibili. Nei college americani, la settimana è impostata su un timetable di 50 ore, dieci in più rispetto alla settimana lavorativa di 8 ore su 5 giorni. Studenti che vengono formati a un ritmo tale saranno lavoratori ai quali sembrerà normale sostenere gli extra della propria azienda. In generale, è diventato normale vedere persone che lavorano 60 ore alla settimana, anche se questo rappresenta un serio rischio dal punto di vista psicofisico secondo un report della WHO del 2021.
All’inizio della pandemia, giravano moltissimi discorsi retorici sull’importanza del rallentare e su come questa esperienza globale ci avrebbe cambiato: “Non torneremo alla normalità perché la normalità era il problema” e altre frasi simili. Ma invece di imparare la lentezza, abbiamo imparato a essere sempre connessi: se prima potevamo evitare alcune cose perché non potevamo esserci di persona, adesso facciamo gli Zoom meeting in macchina o in treno per guadagnare tempo. Nessuno paga questi extra sforzi che facciamo per essere più produttivi e più utili. Certo c’è bisogno di una legge europea che regoli il lavoro a distanza come in Portogallo, ma c’è anche bisogno di lasciarsi alle spalle quell’ansia di essere sempre online che ci fa controllare le notifiche ogni 10 minuti.
Lucia