26.12.2021
Si leva uno stormo nel cielo dal terreno inedificato della porta accanto. Mia madre e mio padre hanno costruito questa casa vent’anni fa, pagata in lire con un’eredità e due semplici richieste: un camino, e una porta finestra antisfondamento. Sulla seconda richiesta, mio padre ne ha da ridire. Adesso il vetro è crepato, un mucchietto di piccoli cristalli si dirama sino all’altezza del manico, una roba talmente drammatica che sarebbe semplice raccontare agli ospiti “è stato un ladro”. Invece mangiamo davanti la porta finestra sbagliata, non pagata da mio padre per ripicca all’operaio, e ci ingozziamo di fritti e di vino. Io fisso il vetro crepato da dietro le tende, e non è che lo faccia apposta, è che mi ci cade di sopra lo sguardo, perché io so chi è stato a romperla, e vi posso garantire con assoluta certezza che mio padre è stato saggio a non pagarla.
Il terrazzo mi cinge le idee, costringe la vita circolarmente, sia la mia che di chi vi ci abita dentro. È una muraglia che da bambina mi faceva sembrare lecito scavalcarla. Mi mettevo a penzoloni sopra il marmo e guardavo in basso, misuravo la pericolosità della caduta: soltanto pochi metri e sarei stata libera, il cancello quindici metri più in là.
Sarà tutto sommato che la porta finestra la potevo aprire, ma avevo una gran voglia di romperla. Sarà tutto sommato che da quel cancello avrei potuto uscire, ma avevo il desiderio di cadere.
24.12.2021
Sono le 18.30 della Vigilia di Natale e sto pulendo con il mocio 300 mq di locale; siamo in due. Un lato lo fai te, un lato lo faccio io. Io gratto con frenesia il pavimento per portarne via le macchie, lo straccio è sporco e lascia delle striate di grigio ben poco invitanti. Direi che è l’equivalente di un lavoro inutile. E’ la terza sede che cambio in tre settimane, questa dovrebbe esser l’ultima. Fino alla settimana scorsa mi avreste trovata in metro alle 7 di mattina, coperta e affaccendata a rimanere sveglia nonostante il freddo indicibile. Succedeva, proprio lì, che incontravo persone comuni e straordinarie. Che reduce dal mio vecchio posto di lavoro, in un centro commerciale diroccato e stanco, qualcuno mi alzasse con tanta premura un paio di sigarette ed un caffè. Che le nostre storie s’incontrassero in una locanda dai prezzi troppi cari ma i pasti irrinunciabili, che anche lì pulissimo e che alla fine dei conti andasse bene così.
“Adesso ti riposi, amore. Mamma sta preparando da giorni soprattutto per te”.
Inforchetto una manciata di carciofi fritti “va bene trattarsi bene quando non si ha un attimo di respiro”.
Mia madre ha relegato i soldi in una busta per la mia visita ginecologica. Io non vedo la mia ragazza da settimane perché tra il mio dire e il suo fare, si è messo di mezzo un nuovo caso positivo. L’ultima volta che sono andata da una ginecologa, dico a mia madre, ho speso 180 euro in tamponi. Un’immagine poco piacevole, lo so, ma stiamo parlando della metà del mio affitto.
Così, quando a Portonaccio, il giorno della Vigilia sto aspettando il mio mezzo da un’ora e lei mi chiede come sto, rispondo che sto di merda, rispondo. Come dovrei stare?
Abbiamo scoperto da poco di esserci contagiate a vicenda e che nessuno ci dice cosa fare. La ginecologa dello studio non si è nemmeno degnata di telefonarle, il medico di base dice “niente di grave”. Lei non conosce neppure il nome del problema, io sono ipocondriaca da anni e cerco su internet gli effetti a lungo termine del virus. Vado in ansia, discutiamo per telefono perché lei non sa e io so invece per vie traverse. “Mi hai tradito?” “No!” “Neppure io!”, e allora tutto apposto. Anzi no, tutto apposto un bel niente, perché nessuno ci dice cosa fare. Perché la preoccupazione maggiore per lo Stato è l’educazione all’omertà, è l’esibizione circense di un paio di vecchi nel predicare cosa sia giusto e cosa no, abolendo la possibilità di evitare delle simili situazioni.
E io adesso cosa faccio? E noi cosa possiamo fare? Mi viene in mente il libro di Marco Missiroli “Atti osceni in luogo privato”. Ci siamo contagiate, Marco, nel luogo più nascosto del mondo. Senza platee ad applaudirci, senza passanti sul motorino che ci gridano “froci” per un paio di mani congiunte. E adesso nessuno ci insegna a proteggerci, nessuno l’ha mai fatto, e un medico e una ginecologa omertosa ci dicono “niente di grave” mentre io pulisco pavimenti sporchi alla Vigilia di Natale.
Non hai ancora imparato a stare zitta? mi dice con spirito premuroso un collega. Io rispondo con un fiero “Mai! Piuttosto che piegarmi mi spezzo”, rispondo. Al che rifletto su come la mia psicologa giudichi senza senso questa risposta, che poi è la stessa che uso nelle liti con la mia ragazza pensando che in qualche modo questo mi restituisca un cenno di dignità. Invece il mio collega scuote la testa sorridendo, e lo scambio finisce lì. Nessuno mi rimborsa di niente. In chiusura una cliente ci chiede se siamo aperti a Natale e noi, esterrefatti e ammutoliti, la fissiamo in silenzio.
Mia madre, segretaria fiera della sua tredicesima, mi porge la busta coi soldi. Allora tutto è risolto, penso. Adesso tutti si ingozzano per trattarsi bene. Perché capita una volta all’anno e io ho sempre giudicato la carriera di mia madre come vittima di un lutto che le ha segnato la vita. Eppure da quei soldi ne dipende ora la mia salute. Che in Italia ci sono tanti modi per non pagare, eppure tutto sommato ci si sente un po’ come in Breaking Bad, ma senza droghe.
La critica sociale si riversa in un film guardato da un Oppo pagato in cash, la sera di Natale: “Don’t look up”, una pellicola che non fa ridere ma si spaccia per divertente, spiattellandoti in faccia un cast stellato e un’apocalisse – dovuta tra l’altro alle stelle – imminente.
Rimango come una stupida a fissare lo schermo. E’ il mio momento di relax, penso, perché dovrei riflettere?
28.12.2021
Riposo in quarantena. Un solo giorno di lavoro, ed eccomi qui, confinata in stanza mentre recupero felicemente le pellicole di Kim Ki Duk e tengo l’Alcyone sul comodino. Sto riposando, rifletto, non guardo mai il telegiornale e non so come stiano andando le cose nel mondo, so solo che muoversi in esso comincia a diventare difficile. Da un anno a questa parte le mie uniche settimane di ferie le ho passate confinata in una stanza di dieci metri quadri, con una me sporca ma in salute che tenta di recuperare tutto il tempo perduto e di darsi un contegno intellettuale.
È quello che succede quando ci “disunisce”, dice un magistrale Capuano, e si cerca di rimettere i pezzi tutt’insieme. La realtà è deludente.
Così penso a tutte le persone che ho incontrato da un anno a questa parte. Alla vita sociale che non ho rimesso in piedi, ma che ho sostituito con scambi repentini e concisi, pregni però di significato. Penso a D che nonostante anni da impiegata provetta, oggettivamente brava sotto ogni punto di vista, è stata mandata via senza un contratto a tempo indeterminato. O a C che nonostante il suo finto fare burbero e la sua diligenza, a più di trent’anni è stato cacciato via dall’ultima azienda con una scusa ridicola. Penso alle persone che vivo quotidianamente che si dannano pur di pagarsi uno straccio di affitto, sempre in cerca di nuovi spazi fioriti, sempre in cerca non del lavoro dei sogni, ma di uno stipendio decente per iniziare forse una convivenza, forse una vita più adulta senza buste da parte di mamma o di papà.
Penso a chi decide di andarsene via, e vi ci includo pure me, che nonostante non immaginino la loro vita altrove, tornano a casa una sera distrutte e mormorano “qui non vedo possibilità”. So che le mie parole ad alcuni di voi sembreranno incredibilmente distanti. Che ho iniziato da poco, a vedere come funziona il mondo, e che scioccata da tanto disguido, mi rifugio nella sola cosa che mi riesce meglio: un film, un libro, un articolo, forse un decalogo delle lamentele che nessuno ascolta.
Non ho più voglia di aiutarle, le persone. Adesso guardo dritto con lo zainetto in spalla, lavoro in silenzio e do risposte secche. Vorrei riappropriarmi del mio tempo, visitare altri Paesi, continuare un’istruzione che ad oggi non mi ha lasciato niente se non degli anni sereni.
Ho un affitto da pagare, una psicologa che tenta di scuotermi e di curare un disturbo che nei momenti di stress mi toglie il fiato, come adesso, come poco prima di ripartire per Roma, che ho sempre considerato casa, e che invece ora mi disgusta.
Come quando guardo mia sorella da un angolo accanto il camino, e le chiedo, la prego, di prepararmi lo zaino, perché io con tutto questo caos non ci riesco. Perché sono paralizzata e sento lo sporco dovunque, il disordine stringermi il petto.
Come quando guardo lo stormo levarsi da terra e mi sento bambina, ormai disunita, ai propri ideali e bisogni.
Come tutte le persone che ho incontrato, come chi serve in silenzio e sta zitto, e orse vive un pochino meglio di me.
Francesca G.