Le pareti
del cervello
non hanno più
finestre
I colori
del buio
Ascolto un album mistico. Che schifo, non avrei dovuto iniziare a scrivere. Il problema è che quando inizi poi fatichi a fermarti. Le dita digitano in automatico, scivolando sinuose sulla tastiera. Alzo la musica al massimo per non pensare. Dicevo, che schifo. Tutto è già stato detto, tutto è già stato scritto. Ho già fatto questo tipo di discorso, ho già usato questo stile. Tutto è già stato visto, sentito, letto. Che poi, almeno fosse apprezzato. Invece no. Non si capisce, è confusionario, è difficile da leggere, non si comprende quale sia il punto. Ogni pensiero è così banale. Ogni parola che scrivo è come se fosse già esistita tale e quale in un altro testo scritto da me. Ma partiamo dal principio. Ogni rubrica necessita di un argomento. Ecco il mio: la scelta. Sì, avevo appena concluso una rubrica sulla scelta nei mesi scorsi. Ma ora ne faccio un’altra. Sarà diversa. Invece no. Il fatto stesso che stia scrivendo queste cose lo dimostra. Ecco, ho iniziato a scrivere e va già meglio. Quel peso soffocante si è alleggerito. Ma resta un dato di fatto. Non sto dicendo niente. Sto parlando del nulla. O forse non sto proprio parlando. Forse è in atto un processo che precede la parola. La musica, per fortuna, continua la sua avanzata. Nobile e possente come il suo titolo, L’isola elefante. Mi hanno detto che mi farà bene scrivere sulla scelta. Ma io non ho più niente da dire. Sono completamente svuotata. Le sole forze rimaste sono adoperate per grattare via quelle pellicine che si accalcano al confine con le unghie. La verità è che non so cosa fare. Se mi concentro mi accorgo di provare una rabbia vorace che grida sangue. L’attimo dopo, invece, il niente. L’interruttore si alza e si abbassa. La musica incede. Ora più calma. Intanto cerco di assottigliarmi sempre di più. È tutto già stato detto, fatto, letto. La rabbia scalpita. Frustrazione, forse. Mi blocco. Non riesco più a scrivere. Non so più cosa scrivere. Sono stata prosciugata. Prosciugata. Prosciugata. Il braccialetto che mi ha regalato si è allargato. Che schifo, sto perdendo tempo. Questo non è un articolo. Il suono si lancia al galoppo. Sono impantanata. Lotto tra il fango e le parole. No, invece sto ferma. Scrivere. Lo sto facendo. Un articolo. No. Suono. Sì. Sonnolenza esistenziale che sfocia in nausea. Stamattina ho riletto le chat della mia vita passata e ho perso tempo. Oggi compio 23 anni. Tra sei giorni c’è la scadenza. Tra nove il primo esame in presenza. Tra diciassette il tema della tesi. Tra un mese l’altro articolo. Tra due il terzo. Una lettura dovrebbe essere piacevole. Non questa. Una lettura dovrebbe lasciare qualcosa. Non qui. Alla gente piace leggere di un argomento qualsiasi, scritto mediocremente, facilmente comprensibile e condivisibile. Sprofondo nel suono. Un tempo mi veniva facile scrivere. Lettere, flussi. Ora sto bene, e non scrivo più versi. Ora scrivo senza aver niente da dire. Mi blocco, penso, non trovo niente, scrivo. Prigioniera di un sistema, di me stessa. Poca fantasia e banalità. Nauseante. Non vi piace quello che scrivo? Non lo capite? Vi dà fastidio? È solo un procedimento umano. Un meccanismo soggettivo ormai consolidato, a cui spesso nessuno bada. Un’operazione che da sempre e per sempre sviscererà dubbi, drammi, dolori. Ne farei volentieri a meno. Ma non posso. O forse sì? Posso imparare a cambiarlo? Posso uscire dal mio stesso sistema? La musica sfuma — la voce sussurra:
Ascolta nel fondo dell’ombra
una visione ti viene incontro
un giorno senza tramonto
le voci si faranno presenze…
Anna Lanfranchi