“Fuggiamo via da qui.”
Il rumore sordo dei loro passi si perde nella quiete della notte, accompagnato dal lontano eco degli undici rintocchi di campana. Lia continua a camminare piano. “Perché?” chiede, la voce impastata di sonno.
“Perché no?”, ribatte Batta. “Qui non c’è futuro né per me, né per te. E se aspettiamo che ai tuoi io piaccia, finiremo a non sposarci mai.”
“Be’, e quando vorresti partire?”
“Il prima possibile. Anche domani, se vuoi.”
Lia abbassa lo sguardo, la fronte aggrottata. “Non so…”, bisbiglia appena.
Batta le si avvicina, le prende una mano e l’avvicina a sé. “L’hai sempre detto che ti sarebbe piaciuto andartene via da qui”, dice dandole un bacio sulla fronte. “Quindi perché non ora? Ho un po’ di soldi da parte, e mio cugino ha detto che un lavoro in città me lo trova.”
Lia solleva timidamente una mano. Con la punta delle dita sfiora il viso di Batta, quasi ne stesse tracciando lei stessa i lineamenti. Poi si ferma, la mano ancora sollevata. Alza lo sguardo al cielo. “Sono bellissime, vero? Le stelle, dico.” Le sue labbra si tirano in un sorriso. “Dici che sono così anche in città?”
“Be’, sì, credo di sì”, risponde Batta ridendo.
“Ssh, fa piano. Se i miei ti sentono sono morta.”
“Allora, ci stai?”
Lia si morde il labbro e sbuffa appena. “Va bene”, mormora.
“Domani?”
Annuisce piano. “Ora devo andare.” Si alza in punta di piedi e preme le labbra sulle sue. “A domani.”
Batta la segue con lo sguardo fino a quando la sua figura sottile non si perde nel buio.
La mattina dopo, Batta si alza che il sole non è ancora sorto. Lascia cadere i piedi giù dal letto e si mette a sedere. Ancora stanco ma troppo agitato per rimettersi a dormire, si veste e inizia a mettere nella vecchia valigia di suo padre le poche camicie e quell’unico paio di pantaloni non lisi che ha. Poi, alza un’asse del pavimento e prende la scatola di latte dove da mesi nasconde i suoi risparmi e la foto di Lia. Chissà cosa dirà la mamma quando lo scoprirà, si chiede. Scuote il capo, come per allontanare il pensiero. Parte dei soldi li nasconde nei calzini, la restante la mette in tasca. Sorridendo bacia la foto di Lia, e mette in tasca anche quella.
Nascosta la valigia sotto al letto, esce di casa.
Si ferma fuori dalla chiesa, e aspetta pazientemente che la messa domenicale finisca. Tra la fiumana di gente che esce dal portone, vede subito Lia, che avanza col capo chino. Le si avvicina, sussurra timidamente un “alle undici, solito posto”, e si allontana di nuovo, senza nemmeno voltarsi a guardarla.
Continua a vagare per il paesino, cercando di imprimersi tutto nella memoria, perché chissà mai che gli venga la nostalgia, qualche volta.
Solo verso sera torna a casa.
Trova sua madre seduta al tavolo della cucina, piegata sotto al suo stesso peso. La saluta, ma lei non gli risponde. Continua a fissare un punto nel vuoto, lo sguardo perso e assorto allo stesso tempo.
Si chiude nella sua stanza, e li resta ad aspettare la notte. Quando esce di casa, trascinandosi dietro quella valigia così leggera ma così pesante, sua madre è ancora in cucina.
Batta si affretta per raggiungere l’albero dove ogni sera lui e Lia si incontrano. Si mette a sedere con la schiena appoggiata al tronco. Sente le campane rintoccare undici volte. Subito alza lo sguardo.
Ma lei non arriva.
Aspetta.
Passa mezz’ora.
Prende la foto dalla tasca, e continua ad aspettare.
Scocca la mezzanotte.
Batta bacia la foto, la ripone con cura nella tasca e si alza.
Le campane stanno ancora rintoccando quando lui se ne va.
Benedetta