“L’azione e il discorso sono ciò che “cominciano”, sono un atto di affermazione della libertà che rievoca automaticamente la possibilità del rischio. Tale rischio implicato dall’azione e dal discorso è legato alla responsabilità morale come misurazione delle conseguenze, e questo tipo di attitudine richiede “coraggio”, una virtù che «è praticamente già presente in ogni volontà di agire e parlare, di inserirsi nel mondo e di iniziare una propria storia. E questo coraggio non è unicamente o anche principalmente legato al proposito di accettare le conseguenze dell’agire; il coraggio e anche l’audacia sono già presenti nel lasciare il proprio riparo e mostrare chi si è, svelando ed esponendo se stessi» (Arendt 2014, 136)” – Ritiri filosofici
“[La storia] si offre come qualcosa di assolutamente discontinuo, non solo perché presenta stati di cose e fatti frammentari, ma nel senso che essa presuppone una discontinuità strutturale. […] La discontinuità […] si pone anzitutto come una discontinuità tra tessuto mitico-arcaico naturale della storia, del già stato, e ciò che in essa sorge dialetticamente come nuovo” – T. W. Adorno
Nell’editoriale di qualche settimana fa, scrivevo: “Attraverso il cinema, il teatro, la musica, la poesia, la prosa, la letteratura, lo sport, la filosofia, gli scacchi – in una parola, ciò che per chi scrive si può chiamare vita –, unendole a una descrizione il più possibile accurata del disagio storico, culturale, economico, ideale, politico e affettivo in cui viviamo oggi, cercheremo di, dopo aver descritto la tempesta, rintracciare una possibile quiete”.
Com’è noto, tendenzialmente ma non ovviamente, ogni cosa dovrebbe cominciare dal suo inizio. Il problema, in una trattazione similare, è una strutturazione, o quantomeno una sua parvenza. Si potrebbe fare un articolo sulla tempesta, un articolo sulla quiete, e l’articolo finale sulla quiete dopo la tempesta, mi dico. Troppo banale, mi rispondo. Uno sulle cause della tempesta, uno sul perché proprio quella quiete, e uno sulla quiete dopo la tempesta? Troppo impostato. E uno a ritroso, che parta dall’unione dei due e poi riavvolga il nastro, à la Haneke, sui due elementi? Già visto. La verità, mi sussurro, è che ho già scritto di tutto. E in tutti i modi. Non perché ami la tuttologia, ovviamente. Ma per una ragione piuttosto semplice: studio filosofia – anzi, a dirla burocraticamente, scienze filosofiche. Il che implica un costante esercizio di sguardo generale, di prospettiva unitaria, in grado di collegare in maniera armonica eppure originale (nel duplice senso di questo termine) argomenti e prospettive – come si direbbe in un verbale qualsiasi – varie ed eventuali. Non ho, però, mai parlato – se non in maniera collaterale – del mio rapporto con la vita; non ovviamente nel senso per cui dedichi qualche migliaio di parole al modo, singolare, con cui io, singolo, vivo la vita nelle sue singole (e singolari) dimensioni – questo interesserebbe pochi lettori, e certamente non me. Adorno sosteneva che la filosofia fosse equiparabile a una farfalla che vede una luce fuori da una finestra, e che, nel cercare di raggiungerla costantemente, vada – ineluttabilmente – a sbattere contro un vetro chiuso. Ecco, questo vorrei fare: esibire ciò che la farfalla vede, in prima istanza – una tempesta costante, un dolore disarticolato che si spappola in un esistenza costantemente denudata nella sua fissità, nella sua staticità, nel suo, agonico e agonizzante, esser sempre la stessa cosa. Cercare di raggiungerla, andando a sbatterci con tutta la forza che una minuta farfalla può possedere, per mischiarsi a essa e unirsi, con l’aiuto di Grecale e Libeccio, a quella ancestrale unione di forze che tutto ha generato e che tutto, ben presto, si rimangerà. E, nel farlo, rendersi conto che non c’è scampo, non c’è possibilità di ricongiungimento, non c’è altra possibilità dell’attesa. Il cordone ombelicale col mondo è, definitivamente, reciso. E non si può fare, in questo senso, esercizio di Kintsugi – e non si può fare perché il vaso rotto e l’oro, qui, abitano in case diverse, viaggiano su treni paralleli, sono l’uno il reciproco dell’altro, irrimediabilmente opposti. Diversamente da Adorno, non vorrei però derubricare questo trittico di articoli a un mero tentativo, a uno sbattimento (nel senso di cui sopra) costante, e costantemente impotente. Sono convinto, come lo era lui, che la filosofia si eserciti nel mantenimento del negativo, nel sostenimento dell’antitesi, e che compito dell’intellettuale sia un esercizio costante di critica; diversamente da Adorno, però, trovo che una dimensione fondamentale sia l’agire. Il rendere concreto ciò che altrimenti rischia di rimanere pura teoria. C’è spazio per la teoretica, ma dev’esserci anche per la prassi. Ed è per questo che, oltre alla tempesta e all’andare a sbattere contro quel maledetto vetro che ci costringe a un muto isolamento, vorrei provare a dirvi – irriducibile nella mia singolarità ma con una prospettiva ineliminabilmente generalizzante – come io, in questa stanza e in questa di-stanza, ho trovato la quiete, sperando che questo possa aiutare (o quantomeno incuriosire) qualcuno.
Per fare questo, però, non userò né tesi, né antitesi, né sintesi. E, ancora, questo primo articolo non è descrivibile né come presentazione né come esposizione né come descrizione del problema. Questo è già il problema, il tema, l’oggetto del discorso. Semplicemente, lo è preso in una istantanea che tiene insieme tutto; mentre nel secondo articolo quel che ora è statico sarà tsunami e meditazione insieme; e nel terzo un piano-sequenza costante, eppur grandangolare.
Ora, però, è tempo di cedere il tratto. La prima mossa l’ho fatta. Tocca a lui. Pedone di re da e2 a e4 – non tollero altri inizi. Lo guardo. Mi guarda. Sorrido. Lo fa anche lui. Non voglio abbassare lo sguardo per primo, ma mi sorprende. Afferra il suo pedone “e”, lo sospinge con fermezza fino a e5, piazzandolo con fierezza davanti il mio; il tutto guardando me dritto negli occhi – non la scacchiera, non i pezzi. Sfiora appena l’orologio, e non molla lo sguardo. Lo abbasso io per primo, per afferrare il Cavallo di Re. Ho già perso, mi dico. Inspiro, espiro e muovo. Ma intanto, emotivamente, siamo già 1 a 0 per lui. Chissà come andrà a finire.
Federico