Il fregio di Beethoven

«Der Zeit ihre Kunst, der Kunst ihre Freiheit»[1]

12 gennaio 2022. Visito una mostra a Palazzo Braschi, Roma. Si chiama “Klimt. La Secessione e l’Italia”, ci sono oltre  200 opere – delle quali 49 di Klimt, tra dipinti, disegni, manifesti d’epoca e sculture. 14 diverse sezioni: dalla Vienna del Novecento a “La sposa”, una delle opere più importanti degli ultimi anni, passando per la pittura paesaggistica.

Grazie alla collaborazione tra Google Arts & Culture Lab Team – nuova piattaforma di Google dedicata all’approfondimento delle arti – e il Belvedere di Vienna è inoltre possibile ammirare i tre dipinti conosciuti come Quadri delle Facoltà – La Medicina, La Giurisprudenza e La Filosofia, realizzati da Klimt tra il 1899 e il 1907 per il soffitto dell’Aula Magna dell’Università di Vienna che li ritenne scandalosi. Di queste opere, distrutte da un incendio scoppiato nel 1945 al castello di Immendorf, in Austria, sono sopravvissute solo alcune immagini fotografiche in bianco e nero, e qualche articolo di giornale. In una sala è possibile ammirare la ricostruzione digitale dei pannelli a colori attraverso il Machine Learning.

Tra le 14 sezioni, una mi colpisce particolarmente, la nona, che ospita il “Fregio di Beethoven”, opera sulla quale mi soffermerò per il resto dell’articolo.
L’opera fu esposta da aprile a giugno del 1902 alla XIV mostra della Secessione Viennese dedicata a Beethoven per il LXXV anniversario di morte. L’esposizione fu modellata sul principio della Gesamtkunstwerk[2] o sinestesia artistica, di ascendenza wagneriana; i visitatori potevano ammirare le opere dei pittori e scultori mentre ascoltavano letture di poesie e un arrangiamento di Gustav Mahler della Nona sinfonia di Beethoven.

L’esposizione rappresentò il vertice del gruppo della Secessione, giovani artisti riuniti a Vienna nel 1897, per iniziare una rivolta “edipica” in difesa della “libertà dell’arte”, contro padri borghesi e conservatori.
Klimt interpreta visivamente l’ultima e più famosa opera del compositore tedesco, composta nel 1824, quando ormai era affetto da sordità, la Nona in re minore Op. 125 in cui ai primi tre movimenti puramente sinfonici ne segue un quarto che include il coro sui versi de L’Ode alla gioia di Friedrich Schiller. A detta di Wagner Beethoven è il nuovo Tiresia – indovino della mitologia greca affetto da ablepsia – , il solitario che malgrado la menomazione vede e sente le cose più chiaramente, così come l’artista-guerriero nella rappresentazione klimtiana conduce l’umanità verso l’assoluto attuandone la redenzione.
Il fregio si estende su 3 pareti per una lunghezza di 34 metri e due di altezza.
Nel 1903, il collezionista Carl Reininghaus lo acquistò e divise in sette parti. Fu in seguito sottoposto a vincolo di inamovibilità dallo Stato austriaco. Ecco perché, per quanto fedelissima e di straordinaria fattura, quella visibile a Roma è solo una replica.

Prima parete: il desiderio della felicità

Un soldato armato, sostenuto dalle forze dell’orgoglio e della compassione che lo spingono a intraprendere il cammino verso la Felicità. L’umanità dolente in ginocchio volge la sua preghiera al soldato.

Seconda parete: “le forze ostili”

In questa parete trionfa il gigante Tifeo, ibrida bestia dalle sembianze scimmiesche, ali blu e corpo serpentino, figlio minore di Gea e Tartaro. Secondo alcuni rappresenta un’allegoria del materialismo contro cui il Cavaliere e lato sensu l’artista, deve lottare per affermare il regno dell’arte. Secondo altri raffigura le forze che soffocano i desideri e gli aneliti dell’uomo, personificati da una figura appena visibile nell’angolo superiore destro.
A sinistra del gigante le tre Gorgoni: malattia, follia e morte. A destra, altre tre figure femminili incarnano incontinenza, voluttà e lussuria e isolata da queste una donna con il corpo coperto da un velo, allegoria del dolore struggente, dell’angoscia che si torce avvolta dal corpo serpentino di Tifeo.

Terza parete: “il desiderio di felicità si placa nella poesia”

La terza parete presenta il tema della poesia, unica via per placare l’anelito alla felicità. Le arti ci guidano così nel regno ideale, dove possiamo trovare gioia, felicità, amore assoluto, avvolti dal coro degli angeli del paradiso. Il fregio termina con un bacio al mondo intero, per riprendere le parole dell’ode di Schiller, dove l’eroe, ormai vulnerabile, privo della propria corazza, si abbandona all’abbraccio della figura femminile; è il ritorno dell’eroe al grembo materno, grembo che diventa simbolo dell’accoglienza, unica speranza dell’umanità. Nonostante la forza espressa dalla muscolatura dell’uomo, le braccia della donna lo rendono prigioniero, quasi a volerlo proteggere. I due corpi sono avvolti da un velo d’acqua che li tiene uniti, con leggerezza. A rafforzare questo legame si sviluppa attorno alle figure un bozzolo dorato, etereo e divino, quasi a voler proteggere qualcosa di sacro e puro. Sopra i loro volti il sole, simbolo maschile e la luna, simbolo femminile loro testimoni.
L’immagine celebra la liberazione, il trionfo dell’eroe sulle forze ostili, la sua resa al potere all’Eros, dunque la vittoria dell’universo dei sensi sulla paure terrene. La vita è intesa come una lotta dell’anima per raggiungere la gioia contro l’oppressione di ogni forza ostile che si pone tra noi e la felicità.

Il riscatto dell’artista attraverso l’arte, dell’uomo che contemplando la bellezza diventa puro occhio del mondo, parlo qui di bellezza non tanto con l’ardore malinconico di Schopenhauer che la vede come negazione della voluntas quanto con l’erotismo di Platone per cui è stimolo alla vita. Il significato ultimo dell’opera è un invito alla fraternità, alla gioia, all’affermazione della vita.

“Abbracciatevi, moltitudini! Questo bacio vada al mondo intero! Fratelli, sopra il cielo stellato deve abitare un padre affettuoso. Gioia si chiama la forte molla che sta nella natura eterna. Gioia, gioia aziona le ruote nel grande meccanismo del mondo.” – Friedrich Schiller, Ode alla gioia, 1785

Matteo Cavazzi


[1] «A ogni epoca la sua arte, all’arte la sua libertà». Motto della secessione viennese, iscritto sul prospetto del palazzo della secessione.

[2] Letteralmente “opera d’arte totale”.

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