Bomba atomica. Il termine fa rabbrividire chiunque, riporta a una sola immagine in bianco e nero. Hiroshima e Nagasaki completamente carbonizzate; si percepisce il caldo di agosto a peggiorare una situazione già di per sé infernale.
Comunque venga proposta, questa immagine non ha doppi sensi: è la brutalità umana, nient’altro. Chi non l’ha vissuta non può credere fino in fondo che una violenza simile sia sia stata inferta deliberatamente su degli esseri umani; è talmente terrificante che non può essere concepita se non come una realtà distante.
Nonostante l’orrore condiviso rispetto a una simile catastrofe oggi uno dei temi più divisivi è proprio quello del nucleare, non solo nella sua applicazione civile, ma anche in quella militare.
Gli studiosi delle relazioni internazionali appartenenti alla scuola realista sostengono che il sistema internazionale più sicuro sia stato quello bipolare degli anni della Guerra Fredda, in cui la minaccia dell’uso delle armi nucleari da parte di entrambe le superpotenze costituì un notevole deterrente rispetto all’inizio di una vera aggressione. L’opzione dell’atomica insomma rese altamente improbabile l’effettivo scoppio di un conflitto che pur raggiunse apici altissimi nel corso di quei decenni.
Di conseguenza anche oggi si ritiene che il possesso da parte di molti Stati di questo tipo di armi renda praticamente impossibile l’inizio di un conflitto basato sulle stesse.
Da studentessa di scienze internazionali non posso ignorare le argomentazioni di alcuni fra i più grandi studiosi del campo. Allo stesso tempo però queste mi spingono a chiedermi se la razionalità utilitaristica dei comportamenti degli attori internazionali possa essere considerata un paradigma consolidato.
L’irrazionalità delle parti – e sì, fra queste ci sono anche i capi di Stato, persino delle più grandi potenze – è d’altra parte evidente in moltissimi ambiti della vita. Perché nelle relazioni tra Stati si dovrebbe totalmente escludere questa ipotesi?
E soprattutto, siamo disposti ad affidarci alla supposizione che nessuno Stato si spingerebbe mai fino all’uso dell’atomica, anche a costo di vedere scoppiare un giorno una guerra nucleare?
A mio parere, il discorso del valore da attribuire alle armi nucleari non si può scindere dal più generale tema della guerra. Questa viene considerata, sempre dalla teoria realista, come una condizione necessaria e intrinseca al sistema internazionale.
Constatato che la guerra è un fenomeno impossibile da estirpare, di conseguenza, le armi nucleari dovrebbero essere considerate addirittura come un bene rispetto a quelle convenzionali, dal momento che riuscirono a congelare un conflitto latente come quello della Guerra Fredda.
È davvero necessario considerare la guerra come una realtà che non potrà mai essere sradicata solo perché ad oggi non è ancora stato fatto?
Il filosofo dell’educazione e attivista contro il militarismo giapponese durante la seconda guerra mondiale, Tsunesaburo Makiguchi, nella sua opera La geografia della vita umana risalente al 1903 esponeva un’analisi della logica interna dello sviluppo storico dell’umanità. Da questa faceva emergere il concetto di “competizione umanitaria”, sostenendo che il futuro di quest’ultima avrebbe visto l’abbandono delle storiche forme di competizione politica, economica e militare, per raggiungere una competizione di diverso tipo, descritta da lui con queste parole: «Raggiungere gli obiettivi non tramite la forza militare o politica ma grazie al potere intangibile che esercita naturalmente un’influenza morale. In altre parole essere rispettati piuttosto che temuti».
Se consideriamo la stabilità della pace nel mondo occidentale durata dalla fine della seconda guerra mondiale fino a oggi, non possiamo negare che ci sia stato un cambio di paradigma mentale: dalla considerazione della guerra come mezzo di risoluzione di ogni conflitto, si è passati alla fiducia nella possibilità di costruire delle istituzioni sovranazionali che siano in grado di regolare e superare i conflitti attraverso la riaffermazione di valori comuni fra le nazioni.
Pensiamo allo sforzo che è costato a tutte le persone ai vertici della politica e della diplomazia il mantenimento della stabilità della pace, che ha consentito al mondo occidentale di vivere senza la minaccia della guerra per oltre settant’anni.
Questo cambio di mentalità si è realizzato alla fine della guerra più disastrosa ed estesa della storia. Dunque, persino dopo il trauma della prima guerra mondiale ci fu bisogno di ottenere un ulteriore prova concreta della potenzialità distruttiva della guerra per arrivare a concepire l’idea di una comunità internazionale pacifica.
Il momento in cui la bomba atomica fu sganciata prima a Hiroshima, il 6 agosto del 1945, e poi a Nagasaki, tre giorni dopo, rappresentò per tutto il mondo un momento di shock; la fotografia del fungo atomico ripreso dall’alto del cielo di Nagasaki è diventata il simbolo del peggiore uso dell’intelligenza umana che sia mai stato fatto nella storia dell’umanità.
Nonostante questo, l’uso dell’atomica è ancora teoricamente ammesso perché una distinzione ben nota agli esseri umani è quella fra la teoria e la prassi, sicuramente utile per interpretare la realtà, ma che talvolta può essere molto fuorviante. Lo si nota dal modo prevalente di affrontare il tema dell’emergenza climatica: da una parte sappiamo di essere in una situazione estremamente compromessa, che esige un intervento urgente; dall’altra però, rimaniamo bloccati dalle difficoltà apparentemente insormontabili che deriverebbero dal tentativo di rivoluzionare il sistema. Ma cosa succede se si continua a ignorare il problema? Che questo alla fine si manifesta a casa propria.
È scoppiata una guerra pochi giorni fa. Non in Yemen, non in Afghanistan, ma in Ucraina, Europa.
Quando una guerra la si può vedere, o anche solo sentire, da vicino, allora ci si ricorda che non è qualcosa di lontano e riguardante soltanto chi sarà così sfortunato da trovarcisi in mezzo; no, al contrario la si sente come una condizione comune, che finché non sarà condannata del tutto continuerà a manifestarsi in forme sempre più sofisticate.
Allo stesso modo trattare l’atomica come una lontana reminiscenza di tempi di guerra che mai più riaccadranno, oppure come un’utile risorsa su un campo di battaglia immaginario, potrebbe allontanare il discorso dalla sua dimensione concreta che conduce ad alcune domande fondamentali, fra cui: il classico concetto di deterrenza è valido ancora oggi? Oppure, se un giorno tutta la comunità internazionale si accordasse sulla necessità di rinunciare alle armi atomiche, sarebbe comunque il caso di continuare a considerare il nucleare una fonte sicura di energia alternativa?
In sostanza, la domanda principale è: su cosa vogliamo basare il futuro?
Valeria Delzotti