Ho una domanda per te che mi leggi: qual è la prima studiosa di matematica di cui hai sentito parlare?
Per quanto mi riguarda, la prima matematica di cui ho sentito parlare è Ipazia di Alessandria. Sentii il suo nome di sfuggita ad una trasmissione radio e subito rimasi ad ascoltare, quasi in trance. Da appassionata di numeri, avevo sentito e risentito i nomi di Archimede, Euclide, Pitagora, persino Fermat e Gauss, ma questa era la prima occasione in cui la disciplina che amavo era associata ad una donna. Di quella trasmissione non ricordai molto: non ricordai cosa studiò, nè se fece scoperte importanti, ricordai invece distinatemente la sua morte. Vissuta in un momento di forte tensione tra cristiani e pagani, Ipazia fu aggredita da una folla di fanatici e morì lapidata.
E così per anni il mio unico idolo matematico al femminile rimase coronato da una fine brutale ed ingiusta.
Si dice che negli ultimi anni l’equilibrio di genere nelle cosidette materie STEM (scienza, tecnologia, ingegneria, matematica) stia cambiando in meglio. Io stessa fui la prima a rendermi conto che tra gli studenti del mio dipartimento sembrava esserci una situazione abbastanza paritaria. Guardando alla quantità di undegraduate (l’equivalente della triennale) del dipartimento di Mathematical and Physical Science ad UCL, negli ultimi 5 anni si è registrata una percentuale di studenti attorno al 52-55%, una percentuale di studentesse attorno al 45-48%. Inoltre, negli ultimi due anni è stata misurata una percentuale (attualmente arrotondata a 0%) di studenti di genere altro. La situazione sembra bilanciata, no? Peccato che la percentuale cominci a cambiare quando dagli undergraduate si passa ai graduate (l’equivalente di magistrale e dottorato). Nell’anno corrente le percentuali di graduate sono rispettivamente 53%, 47% e 0% per genere maschile, femminile e altro, ma tornando indietro nel tempo si vede che negli anni più del 60% degli studenti graduate sono stati uomini. In altre parole, le matematiche esistono, eccome, ma non sembrano proseguire gli studi tanto quanto i loro colleghi matematici. Forse perchè è difficile camminare col peso aggiunto del proprio genere, ed è difficile osservare nuovi sentieri se sei tu la prima a non essere vista.
Spesso mi tornano in mente le parole di una matematica impegnata nel suo dottorato, incontrata per caso in una passeggiata, la quale scherzava dicendo di aver avuto come più professori chiamati Oleg che professoresse durante il suo percorso di studi. Claudia Henrion nel suo “Women in mathematics” analizza come spesso si percepisca una tensione tra l’essere donna e l’essere una studiosa di matematica. Questa materia viene spesso percepita come eminentemente maschile sia per l’elevato livello di astrazione mentale (mentre il femminile è più fisico) sia per l’elevata professionalità (mentre il femminile è più casalingo). Dunque una donna che si dedichi ai numeri si ritrova a camminare su un crinale. Da un lato deve mostrare delle caratteristiche più stereotipicamente maschili se vuole essere presa sul serio. Dall’altro l’abdicazione ad un ruolo femminile presenta i suoi rischi, come quello di precludere la possibilità di matrimoni e maternità.
Henrion racconta una battuta in voga tra i matematici negli ultimi decenni: “Ci sono state solo due matematiche. Una non era una donna. L’altra non era una matematica”. La prima figura a cui si fa riferimento è Emmy Noether, brillante studiosa da cui prendono il nome gli anelli noetheriani. Secondo Henrion, Noether veniva percepita come una donna atipica, sia per il suo farsi chiamare al maschile, “der Noether”, sia per la sua supposta mancanza di bellezza, sia, appunto, per la sua passione per la matematica.
La seconda figura, il mio secondo idolo matematico, invece si chiama Sofia Kovalevskaja.
Ho incontrato Sofia Kovalevskaja per la prima volta leggendo il racconto “Troppa felicità” dall’omonima raccolta di Alice Munro. Era una figura più problematica, ove per più problematica s’intende più multiforme.
Nata nel 1850, figlia di un generale russo, appassionata di matematica sin da bambina, pur di per poter studiare all’estero intrecciò un matrimonio di convenienza con Viktor Kovalevskj. Durante i suoi studi in Germania incontrò e impressionò Karl Weierstrass, divenendo sua allieva e poi sua collega. Tuttavia, anche tra una scoperta matematica e l’altra, la vita di Sofia Kovalevskaja rimaneva piena. Fu una fervente socialista, fino al punto ad aiutare la sorella nella liberazione di suo marito, Jaclard, imprigionato durante le lotte rivoluzionarie in atto a Parigi verso la fine del XIX secolo. Fu anche una scrittrice. Scrisse delle opere teatrali, un romanzo “Ragazza nichilista” e delle memorie d’infanzia che da oltre un mese torreggiano sul mio comodino.
Testimonianza che dedicarsi al mondo dei numeri non per forza deve significare rinunciare a tutto il resto.
Prova della difficoltà di immaginare le matematiche, è la loro assenza da certa narrazione popolare: se ci sono degli esempi di matematiche folli e geniali, sono minori e meno interessanti delle loro controparti maschili.
L’unico film che si può avvicinare in popolarità ad opere come “L’uomo che vide l’infinito” o “Imitation Game” è una gemma tradotta in italiano come “Il diritto di contare”, di spirito molto diverso da entrambi questi due esempi. “Hidden figures”, cioè sia “Cifre nascoste” sia “Figure nascoste”, racconta la vera storia di tre matematiche afroamericane, tra cui spicca la geniale Katherine Johnson, impegnate ad avanzare nei loro studi e lavori nonostante un razzismo endemico e un sessismo altrettanto radicato. Dei molti film citati in precedenza, è uno dei pochi in cui la matematica viene raccontata non come una fatica insormontabile o persino una maledizione, ma un talento a cui dedicarsi con passione e con gioia. Katherine Johnson è rappresentata come una figura a tutto tondo, in cui il talento matematico non contrasta né la sua femminilità né il suo ruolo di madre. Cinema idealistico, consolatorio? Potrebbe essere. Cinema restio a dipingere donne (e per di più nere) come figure complesse o potenzialmente distruttive? Potrebbe essere. Nondimeno vedere non una, ma ben tre matematiche destreggiarsi tra calcoli e lasciare il segno nella storia senza sacrificare se stesse né morire tragicamente rimane un traguardo notevole.
Figure come Sofia Kovalevskaja o Katherine Johnson hanno per me rappresentato non soltanto un finissimo intelletto femminile, ma anche la prova definitiva che la matematica sia compatibile con una vita attiva.
Parte di ciò che ha contribuito a rendere la matematica una materia tanto elitaria è il pregiudizio della sua insularità: un territorio solitario dove si entra soltanto a prezzo di perdere il contatto con tutto il resto. Ed essere donna era resto, era altro, dunque come poteva una donna essere una buona matematica? Vite come le loro sono state un’eccellente dimostrazione che questa insularità non era un teorema e si potevano trovare illustri controesempi.
Francesca P.