L’intervista a Diana Manea

Alcuni di voi ricorderanno il nome di Diana Manea (che qui potete vedere in una foto scattata da Maurizio Scanferla) dalla recensione di M, Il figlio del secolo, uscita il mese scorso. Alcuni di voi – penso ai lettori valtellinesi – lo ricollegheranno al Laboratorio Espressioni, gruppo teatrale che da anni anima il Liceo Donegani di Sondrio. Forse però non avete avuto modo di chiacchierare con lei di teatro e di poesia, e scommetto che vi va di rimediare dedicando qualche minuto del vostro tempo a leggere questa intervista. Del resto, quale modo migliore per iniziare a conoscere la Giuria del nostro Concorso Poetico?

Iniziamo come sempre con le presentazioni. Chi è Diana Manea? E cosa ti ha portato al mondo del teatro e alla carriera di attrice?
Sono una valtellinese, una sondriese che si è avvicinata al teatro un po’ per passione, un po’ per “obbligo”. È un mondo che mi è sempre piaciuto, ma ero molto timida. Ai tempi avevo 16 anni un giorno mio cugino, Gianluca Moiser (n.d.A., professore presso il Liceo Scientifico Donegani e membro della compagnia Gente Assurda), mi disse “dai, andiamo a fare questo corso di teatro” e io “no, no, non ne ho voglia”, e lui disse che se non ci fossi andata io non l’avrebbe fatto nemmeno lui. Quindi abbiamo cominciato, e per me è stato un po’ un colpo di fulmine. All’epoca c’era questo corso, organizzato dal Comune di Sondrio, che occupava due giorni a settimana, il venerdì sera e il sabato pomeriggio. È stato un corso molto prolifico, perché innanzitutto ha fatto sì che nascesse la compagnia Gente Assurda, e poi perché da questo gruppo si sono formati moltissimi attori o comunque persone che hanno lavorato nell’ambito artistico tra cui Stefano Scherini, Francesca Micheli, Astra Lanz, io… Insomma, ha dato il via a una passione, alla realizzazione di un sogno nel cassetto. Poi ho cominciato a lavoricchiare con la compagnia, e alla fine mi sono ritrovata a fare i provini per entrare in una scuola di teatro. Il primo tentativo non andò benissimo ma l’anno dopo entrai alla Scuola del Piccolo Teatro di Milano, inaspettatamente, e nel ‘99 ho iniziato frequentando il primo corso diretto da Luca Ronconi. Ho avuto la fortuna di studiare con grandi maestri tra cui Enrico D’amato, Gianfranco De Bosio, Marise Flach, Lydia Stix, Giulia Lazzarini, Michele Abbondanza. Mi sono poi addentrata nel mondo del lavoro facendo mille esperienze che hanno contribuito ad accrescere la mia formazione.

Al momento stai lavorando a M, Il figlio del secolo, una produzione colossale. Come cambia il lavoro teatrale quando si affronta un progetto più piccolo e quando invece se ne affronta uno così imponente, soprattutto in tempi di Covid?
In entrambi i casi, il tempo per provare uno spettacolo è sempre lo stesso: un mese, un mese e mezzo quando va bene. A volte si fanno anche delle micro settimane di lavoro per arrivare al mese di lavoro più inquadrati. La differenza non è solo tra compagnie numerose e meno numerose, ma dipende anche dal tipo di testo e dalla sua corposità. Se il testo è più piccolo si ha naturalmente più tempo per lavorarlo, provare soluzioni alternative, metterle in discussione e sistemarle. M, Il figlio del secolo è spettacolo “grande” di per sé a livello testuale – si parte da un romanzo di ottocento pagine, portato in circa due ore e quaranta di spettacolo -, ma anche per numero di attori e di personaggi – cioè 18 attori interpretano circa 90 personaggi. Abbiamo iniziato a provare il 2 dicembre, e teoricamente avremmo dovuto debuttare il 20 gennaio, quindi dopo un mese e quindici giorni circa di prove. Massimo Popolizio, regista non che attore dello spettacolo, è arrivato con le idee molto chiare. Aveva perfettamente in mente cosa sarebbe dovuto accadere scena per scena a livello attoriale, quali i movimenti degli elementi scenici, le musiche. Abbiamo fatto tre giorni di tavolino e subito abbiamo iniziato col montaggio dello spettacolo. Si è trattato di un lavoro faticoso soprattutto in tempi di Covid, con una compagnia di 18 attori e altrettanti tecnici. Purtroppo infatti prima di Natale si sono verificati alcuni casi di positività nella compagnia, ma non ci siamo mai fermati e abbiamo debuttato il 2 febbraio al Teatro Strehler di Milano. Queste giornate in più ci hanno permesso non solo di lavorare in certi casi più approfonditamente ma anche di testare la lunghezza dello spettacolo. Si tratta infatti di uno spettacolo veloce, d’impatto, costituito da 31 quadri che richiamano molto i numeri da Varietà.

Una curiosità sullo spettacolo. Voi attori in scena avete tutti background diversi, eppure questo non si nota. Come avete raggiunto questa notevole omogeneità?
È completamente merito di Massimo Popolizio. E’ lui che ha dettato il codice e la musicalità del testo, sicuramente figlio di tanti anni di lavoro teatrale con Luca Ronconi con cui tanti di noi della compagnia abbiamo lavorato. Massimo si è trovato a elaborare, così come spesso usava Ronconi, non un testo teatrale ma tratto da un romanzo. Quando prima ho detto che aveva in mente come le cose andassero dette, intendo dire che ti faceva sentire la musicalità funzionale all’andamento del testo. Essendo tratto da un romanzo “storico” che porta in scena una parte della nostra storia si è capito che era più interessante e forse efficace rappresentarlo alla mo’ del teatro epico di cui uno dei più grtandi esponenti è stato Bertold Brecht: gli attori non aderiscono al personaggio, ma lo vestono e lo mostrano al pubblico; la quarta parete è sfondata; gli attori parlano spesso in terza persona e atrettanto spesso si rivolgono allo spettatore.

Passiamo ora a una questione forse un po’ più ampia. Questo spettacolo, ma anche i lavori che svolgi nelle scuole, come ad esempio il Laboratorio Espressioni che da anni tieni a Sondrio, mostrano un certo modo di intendere il teatro, politico e sociale. Potresti parlarci dell’importanza del teatro nella formazione dell’individuo?
Questa è una modalità e un pensiero che si è sviluppata nel corso degli anni, senz’altro arricchita dai molti progetti intrapresi a Modena anni fa con un gruppo di lavoro molto solido guidato da Claudio Longhi in collaborazione con ERT – Emilia Romagna Teatro Fondazione. Ad esempio con Carissimi padri abbiamo voluto riflettere sul primo conflitto mondiale: per  un anno coinvolgendo la città di Modena nei suoi vari ambiti (associazioni, scuole, enti culturali) si è lavorato e discusso su quel periodo storico con l’intento anche di dare la possibilità a tutti i cittadini di arrivare alla visione dello spettacolo, Istruzioni per non morire in pace di Paolo di Paolo, con una comprensione profonda di un’epoca di cui spesso non si parla abbastanza. Per M – Il figlio del secolo, invece, abbiamo svolto a Milano delle attività scolastiche la mattina e attivato delle camminate aperte al pubblico in alcuni luoghi citati nel romanzo di Scurati, alla scoperta di una storia, una storia in parte distrutta, per mantenere viva una coscienza storica e sociale. 
Queste iniziative ci danno la possibilità di condividere il lavoro che abbiamo fatto sul palco, e sarebbe un peccato se uno spettacolo come questo non condividesse il proprio operato culturale con la società, proprio perché è uno spettacolo che dà la possibilità di guardare il presente in un altro modo… Anche se è proprio vero che non si impara niente: pochi giorni fa, Lev Dodin, un regista russo, ha scritto una lettera a Putin, e in un passaggio ha detto “La missione dell’arte e della cultura è sempre stata ed è ancora, soprattutto dopo tutti gli orrori del XX secolo, quella di insegnare agli uomini a prendere le disgrazie degli altri come proprie, a capire che non c’è una sola idea, anche la più grande e la più bella, che valga una vita umana. Possiamo già dire oggi: ancora una volta, la cultura e l’arte hanno fallito la loro missione.”

Tu quindi credi molto in questa potenzialità. Cioè, per te il teatro deve spingere alla riflessione. Come è possibile questo?
Il teatro vive continuamente nella testa, nella memoria dello spettatore. Questo soprattutto con spettacoli come M – Il figlio del secolo, che ci raccontano una parte di storia incredibilmente contemporanea, che ci parlano dell’oggi, e ci spingono a pensare, a ragionare su tanti fatti e situazioni. Attenzione: non tutti gli spettacoli devono essere così! Ogni tanto si devono mollare gli ormeggi e lasciarsi trasportare dentro una storia, perché ci vuole anche tanta leggerezza. Ma anche questi spettacoli, che hanno qualcosa di sociale con apparente leggerezza, fanno passare messaggi ancora più importanti. Brecht docet: l’ironia racconta meglio i drammi della gente «La tragedia, molto più spesso della commedia, prende alla leggera le sofferenze dell’umanità».  Il percorso della risata è infatti un percorso di comprensione. La risata non è sempre di divertimento: le risate possono essere amare, attivare dei pensieri. Inoltre, il fatto che il pubblico venga richiamato all’attenzione, con la rottura della quarta parete, spiega allo spettatore che lui stesso è parte della storia, come lo siamo noi sul palcoscenico. Quando ci emozioniamo e basta, non ragioniamo con la testa, mentre è fondamentale a teatro poter pensare e ragionare. Ecco, in poche parole, per me lo spettacolo e l’impegno sociale vanno di pari passo.

Devo dire che trovo molto interessante questo modo di intendere il teatro e il lavoro dell’attore…
Ci sono tanti modi per fare questo mestiere. Per me questo è essenziale, perché assume un altro valore. Questo lavoro serve a me, ma in funzione di qualcun altro. Se lavoro davanti a uno specchio, davanti a una sala vuota, è difficile e inutile. Quello che si instaura tra attori e pubblico è unico, e lo è ogni sera. 
Per tornare allo spettacolo quando abbiamo iniziato a “fare le filate”, a gennaio, alla fine non ne potevamo più, volevamo avere qualcuno in platea. Avevamo bisogno di capire come e cosa fosse recepito, perché in base alle risposte, alcuni passaggi possono essere modificati. Massimo, oltre a essere il regista, è anche attore all’interno dello spettacolo e questo è un valore aggiunto, infatti giornalmente ci da indicazioni pratiche inerenti la messa in scena. Non solo, adesso siamo a Roma al Teatro Argentina, lo spazio è diverso – il boccascena è un po’ più piccolo, ma c’è più spazio in avanti – e lo spettacolo in alcune situazioni ha necessitato di alcuni cambi spaziali. Come vedi è un lavoro sempre in evoluzione.
Questo mi riporta a Lev Dodin. Quando frequentavo alla Scuola del Piccolo Teatro di Milano, per mantenermi facevo la maschera a teatro, e una sera potei vedere spettacolo Fratelli e Sorelle, che portava in giro da vent’anni, seguendo spesso le messe in scena. Quella sera, finito lo spettacolo, con mia sorpresa si mise a dare correzioni agli attori… vent’anni dopo. È importante che un regista continui a seguire i propri spettacoli, perché alcuni passaggi  soprattutto col passare degli anni vengono magari letti in maniera diversa, bisogna quindi ricalibrare e nel caso cambiare. Per me questo aspetto e molto interessante, vitale.

Veniamo ora alla nostra ultima domanda. Come ogni anno, Bottega di idee ha indetto il suo Concorso di Poesia, e tu sarai parte della Giuria. Come descriveresti il tuo legame con la poesia come persona e come attrice?
Sono sempre stata molto attratta dalla poesia, e ho sempre avuto una grande ammirazione verso i poeti, perché sanno concentrare in un minuscolo spazio vitale un mondo pieno di emozioni. Riescono a spostare le assi del nostro cuore, a sciogliere determinati grumi,  insomma hanno grande potere sull’individuo. Quando sei al liceo, però, la poesia ti fa venire il nervoso, perché non è viva, non è vitale. Ne fai la parafrasi, la studi a memoria, e quella non è la parte interessante della poesia. In generale spesso non ti godi gli autori che ti impongono, impari a goderteli quando li leggi da solo, quando magari passi giorni su un passaggio per capirlo fino in fondo. Io ho iniziato ad amare particolarmente la poesia durante il mio percorso accademico, grazie alla mia insegnante non che grandissima attrice Franca Nuti  che con noi faceva poesia e recitazione in versi. Forse era talmente tanto il suo amore per quest’arte che me l’ha trasmesso integralmente.
Da allora ho iniziato a leggere e amare la poesia. Poi a Modena, ho conosciuto Alberto Bertoni, poeta, professore universitario e uno dei fondatori del Poesia Festival, e ho avuto l’opportunità di affiancarlo in diversi progetti che continuano tutt’ora. All’inizio avevo molta paura: un conto è leggere poesie per te, un altro è leggere poesie davanti a un poeta! E invece è iniziata una bellissima collaborazione: siamo praticamente un duetto fisso. Alberto ha contribuito a sviluppare sempre più questa mia passione ponendomi sempre nuove sfide. Un anno ad esempio abbiamo portato al Poesia Festival un reading su Giuseppe Ungaretti, ed è stato difficilissimo: tutte quelle pause, sono qualcosa. Un attore rischia di interpretare troppo, e invece bisogna imparare a lasciare spazio alla parola, a fare da tramite senza manipolarla troppo. È una questione di soggettività. La poesia è musica, ha un flusso, ed è bellissimo potergli dare voce, farla risuonare. È sempre melodiosa, anche quando ti devasta e ti rompe, e mette a nudo non solo chi la scrive, ma anche chi la legge.

Cosa ti aspetti da questa esperienza?
Guarda, non lo so. Io non ho mai scritto poesie – o meglio, in gioventù mi piaceva prendere un foglio bianco e cercare di esprimere quello che mi passava attraverso. Poi son sempre cose che ho preso e buttato, anche se alcune le ho ancora da qualche parte. Quando ho iniziato col Laboratorio Espressioni, ho chiesto ai ragazzi: a voi capita mai di scrivere qualcosa? Era l’epoca della nascita di Facebook, della facilità di condivisione, mentre la poesia è qualcosa di intimo, che spesso non si condivide, e io ero curiosa di sapere se c’era qualcuno che lo facesse, qualcuno che cavalcasse quel mondo. Ed erano pochissimi! Io cercavo di stimolarli a scrivere, perché è un altro modo per leggersi, per guardarsi meglio. Quando metti nero su bianco qualcosa che c’è dentro di te e lo rileggi, c’è molta più comprensione di te. Ecco, mi aspetto che ci siano molte di “penne”. Io non so se ne sono capace, ma amo leggere le poesie, depositarmi dentro ad alcuni passaggi.

Benedetta

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