Il segreto della bellezza

Pensò che la bellezza del mondo nascondeva un segreto, che il cuore del mondo batteva a un prezzo terribile, che la sofferenza e la bellezza del mondo crescevano di pari passo, ma in direzioni opposte, e che forse quella forbice vertiginosa esigeva il sangue di molta gente per la grazia di un semplice fiore. – Cormac McCarthy

Tsunami e meditazione. Tsunami, e meditazione. Tsunami. E meditazione. Insieme. Manipolazione della lingua, esasperata. Un sogno, alla deriva.

Fuori c’è la guerra. Dentro, il mondo. Provo a respirare. Poco poco. Appena appena. Percepisco il battito rallentare. E si farà l’amore, ognuno come gli va – anche i preti potranno sposarsi, ma soltanto a una certa età. Chiudo gli occhi. Inspiro. Espiro. Lascio scorrere le dita. Colpiscono ciò che desiderano. Sfiorano, con prudenza, i tasti. Difendi questa umanità, anche restasse un solo uomo. Perché le idee sono come le farfalle, che non puoi togliergli le ali; perché le idee sono come le stelle, che non le spengono i temporali. Le lettere, una a una, si inseguono. Concrescono. Si riverberano.

Devo parlare del mondo. Della sua tendenza all’autodistruzione. Di quel fiero e naturale bisogno di abbandonare se stessi. Lasciare la propria carne per superarla. Di ciò che forma la tempesta, di ciò che la scatena. Di cosa la tempesta sia. E, soprattutto, come uscirne. Come fuggirne. Guardo i tasti. Chiedo a loro come fare. Verso quale mondo andare. È la prima volta che sono fermo. Spento. Chiuso. Alla ricerca di un inizio. Di un cominciamento. Di una finestra su cui sbattere. Di un teatro in cui liberarmi. Di un cinema, dove proiettarmi. Concepire un sogno, e raggiungerlo. Avere un desiderio, e realizzarlo. Mirare a un bersaglio, e colpirlo. Ma è proprio questo il problema della tempesta. Se ne sente il rimbombo, se ne ode l’eco, ma non se ne percepisce l’arrivo. Colpisce unilateralmente e da più parti, insieme. E poi, d’un tratto, non c’è più niente. Si grida contro i barbari. Si ricercano i conquistatori. Ci si guarda attorno, disperati, e si trova – letteralmente – nulla. È il senso di perdizione, il problema. L’oggetto del discorso. Detta per com’è, siamo essenzialmente dei lillipuziani che si orientano e riorientano in un mondo sempre più confuso, alla ricerca di modelli in una società che non ne offre, proiettati verso un orizzonte indefinito, e per questo ansiogeno. Siamo ospiti di fatti storici di cui non conosciamo le cause e di cui ignoriamo le conseguenze. Siamo schiavi di padroni immobili, invisibili, irriconoscibili. Desideriamo stabilità in un mondo instabile, tranquillità in un contesto patologico, conoscenza in uno spazio inaccessibile. Siamo attratti da ciò che ci distanzia da noi stessi e timorosi di ciò che ci avvicina alla nostra interiorità. Vogliamo, sempre, ciò che ci nuoce. Ciò che ci comoda. Ciò che ci supporta. Cerchiamo conforto, così ingenuamente ignari di come funziona l’ordine costituito. Siamo pervasi dal dolore da cui cerchiamo di liberarci – conosciamo il problema, non la soluzione. È una morsa. Stringe piano, lentamente. Accerchia il suo visitatore, pian piano costringendolo in un timido angolino. Impedisce ogni difesa, schernisce ogni attacco. Ricerca nell’oltre ciò che sta nel qui. Pretende, e ottiene, un restringimento dell’avversario. Manca l’aria. C’è bisogno di un appoggio, di una protezione. Veniamo denudati, spogliati. Siamo risibili corpuscoli che cercano un po’ di respiro. Inutili ingranaggi di un orologio il cui funzionamento prescinde dalle sue componenti interne. Minuti esserini che desiderano, sempre, ciò che non possono avere. Sconfitti dentro, e ripuliti fuori. Di colpo, sento una voce. Conta solo la percezione, in questo mondo.

Ascolto meglio. È tutto un discorso di apparenza, Federico. Chiedo di ripetere. A nessuno importa come sei. Tutti vedono, qualcuno guarda, pochi osservano, nessuno deduce. Siamo solo ombre, burattini, matrioske. Proiezioni proiettate e ritorte da burattinai ignoti, manovratori sconosciuti, padroni irriconoscibili. Governa le apparenze, Federico, e governerai il mondo.

Chiudo il libro. Subito lo riapro. Pagina 77. Lo richiudo.Mi sporgo dalla finestra. La tempesta ha portato via tutto. Per strada ci sono detriti, persone morte, animali sgozzati, vestiti spezzati, scheletri disossati. Tutto è grigio. Delle pietre rotolano. Il vuoto emette un terribile rumore. Un camion, in retromarcia, senza benzina, scivola in una discesa. Lo guida una ragazzina. Mi piaci tu, mi piaci tu, mi piaci tu, ma come te lo devo dire. Sono sceso, dalla finestra. Ora sono sdraiato. Steso. Investito. Ma ancora vivo – il dolore non è mai troppo. Con le poche forze residue, getto uno sguardo al Casio che indosso. Le 23:23. Il 29 settembre 2024. Make sense. Chiudo gli occhi, aspettando il mio destino – un’ambulanza mai chiamata, una risata soffocata. Quando riapro gli occhi, sono le 00:01. Il 30 settembre 2024. 18 ore e 34 minuti dopo, avrò raggiunto il mio venticinquesimo anno d’età. Comunque, per ora, sono sopravvissuto. Vedo che sono sdraiato in un letto, e capisco. C’è una fiaschetta d’alcool vicino a me. Un angelo, che imperversa protezione, si prende cura di me, al mio fianco. Inizio, finalmente, a ricordare. La mia prima sbronza. Il dolore di una sconfitta. Il prezzo di tanta bellezza. Un biglietto gratuito per assistere allo sfascio del nostro mondo, e un mezzo prenotato per condurci oltre le più incredibili difficoltà. Ora, finalmente, capisco. La sera prima ho perso il primo match della finale del campionato del mondo. Me ne restano altri 13. Al posto che analizzare la posizione, mi sono ubriacato. Non ho retto al dolore. La tempesta ha portato via tutto. Mi sporgo alla finestra. Vedo esattamente ciò che avevo appena sognato – un camion, in retromarcia, senza benzina, che scivola in discesa. Lo guida una ragazzina.

77 giorni dopo, sono – di nuovo – sdraiato in un letto. E, ancora, guardo fuor dalla finestra. Un prato verde e delle margherite si rincorrono. Ho vinto, per la quinta volta consecutiva, il campionato del mondo. Risultato finale: 7.5 a 6.5. Tiratissima. Oggi, però, non conta più niente. Ora sto bene – la guerra è finita, e ho vinto io. La primavera, intanto, tarda ad arrivare. Apro la finestra. Un vento a trenta gradi sotto zero proviene dall’est. Una ragazzina, tanto bella quanto smarrita, insegue un lupo. Quello la distanzia. Ridono entrambi, e dio – da laggiù – se ne compiace. Ho trovato la pace. Finalmente. Credo. Ho trovato la pace, finalmente, credo. Ho trovato. La pace – finalmente, credo. Manipolazione della lingua, esasperata. Un sogno, veloce, mi porta alla deriva. Mi lascio trascinare. Sbarco. Sono vivo.

Riapro il libro. Pagina 279. Secondo paragrafo. Terza riga. Leggo, capisco, abbandono.

Pensò che la bellezza del mondo nascondeva un segreto, che il cuore del mondo batteva a un prezzo terribile, che la sofferenza e la bellezza del mondo crescevano di pari passo, ma in direzioni opposte, e che forse quella forbice vertiginosa esigeva il sangue di molta gente per la grazia di un semplice fiore.

La pace. L’oasi. La spiegazione definitiva. Il chiarimento del problema. Il ritrovamento della soluzione. Tutto questo, insieme e separatamente. Con violenza e gentilezza. In un’unica dose, con un’unica direzione, verso un’unica prospettiva. La prossima.

Federico

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