“Un giorno le macchine riusciranno a risolvere tutti i problemi, ma mai nessuna di esse potrà porne uno.” – Albert Einstein
“La pace. L’oasi. La spiegazione definitiva. Il chiarimento del problema. Il ritrovamento della soluzione. Tutto questo, insieme e separatamente. Con violenza e gentilezza. In un’unica dose, con un’unica direzione, verso un’unica prospettiva. La prossima.” – così, poco più di due settimane fa, ci salutavamo. Io, e voi. Voi, e io. Lo spettatore della sua vita e i registi della stessa, o forse il regista della propria vita e gli spettatori dell’esibizione della stessa. Una proiezione – manipolata, frustrata, esibita. Un palco – virtuale, irreale, esibito. Degli spettatori – manipolati, irreali, esibiti.
Viene da chiedersi quale problema dovessi chiarirvi, di quale enigma dovessi svelarvi la soluzione. Procediamo passo passo, e logicamente. Prima cosa: i titoli. Frammenti di sé, il primo; Il segreto della bellezza, il secondo. Seconda passo: i riferimenti. Tre filosofi nel primo articolo: Hannah Arendt, Theodor Adorno, Murubutu. Tre nel secondo: Cormac McCarthy, Franco Battiato, Paul Thomas Anderson. Terzo punto dell’analisi: gli strati. Nel primo articolo, una presentazione del problema, un riferimento a quella che con un’espressione forzata e forzante chiameremmo realtà reale (il fatto che studiassi scienze filosofiche), e un solo sogno: io, alla prima partita della finale del campionato del mondo (cosa, questa, che si capisce nel secondo articolo), che perdo un duello psicologico col mio sfidante. Nel secondo, si triplica. Ci sono tre presentazioni (del processo creativo, nel primo paragrafo; del processo di schiacciamento da parte della tempesta del mondo nei confronti del soggetto, nel corpo del testo; del, come da titolo, “segreto della bellezza”, con la frase di McCarthy posta all’inizio e alla fine), tre sogni (io che mi sveglio e vedo lo scenario che la tempesta ha creato; sempre io che mi sveglio dopo aver visto questo scenario e mi ritrovo dopo la sbronza sdraiato in un letto dal quale mi alzo dopo aver perso la prima partita del match mondiale; sempre io che mi ritrovo nel medesimo letto, 77 giorni dopo, e guardando fuor dalla finestra rivedo quanto sognato per la prima volta), e tre riferimenti alla realtà reale: ciò che gli esseri umani sono nella società di oggi – “minuti esserini che desiderano, sempre, ciò che non possono avere” –, la frase del mio coinquilino – “Conta solo la percezione, in questo mondo” – e il mio annuncio su cosa sarebbe stato il terzo articolo – la soluzione del problema, appunto. Ma facciamo un passo indietro, per non lasciar nulla d’intentato.
Nella chiosa del secondo articolo, che non per caso è l’avvio del terzo, si chiariva anche come vi avrei chiarito il problema che io stesso ho tracciato nelle mie, personali, tesi e antitesi: “con violenza e gentilezza”. E se, credo, si può pensare che stringere la mano dei lettori e accompagnarli nel rintracciamento dei punti comuni ai primi due testi sia la parte dedicata alla gentilezza, ciò significa che manca una sola cosa: la violenza.
Mi sono sempre chiesto che cosa creasse, negli esseri umani, la passione per l’ignoranza. Ora, è evidente che, solo nel porre la domanda, si tradisce la matrice occidentale dell’interrogante: altrove, infatti, l’ignoranza non è un obiettivo raggiunto, come avviene invece qui, ma una condizione permanente imposta da altre logiche – che, per dirla facilmente, fa sì che per evitare la possibilità che gli schiavi possano divenire ribelli, si inibiscano gli strumenti stessi di liberazione dall’ignoranza: ricchezza, diritti, scuole, eccetera. Ma, comunque, andiamo avanti – dicevamo di come mi chiedessi perché gli esseri umani (non tutti ma comunque nettamente la maggior parte) occidentali scelgano, costantemente, l’ignoranza a dispetto della conoscenza. Nella mia (auto)biografia presente qui trovate scritto che odio l’ignoranza, ma solo se evitabile. Ed è proprio questo il punto: noi occidentali, la ricchezza, i diritti, le scuole e le possibilità necessarie per conoscere come il mondo funzioni davvero, le abbiamo. Eppure, per la maggior parte di noi, l’attrattiva esercitata dall’ignoranza è irresistibile: da un lato voltare lo sguardo e riversarlo su Instagram e TikTok fa comodo, dall’altro per conoscere (o almeno provare a farlo) servono fatica, passione, dedizione. E poi, è chiaro: conoscere, in questo mondo, non paga: oggi, nella civilissima Italia dei valori e delle libertà, un malato terminale non può scegliere di porre fine al proprio dolore; oggi, nell’Italia del progresso e del capitalismo, uno studente svogliato che esce con 60 da un’istituto tecnico trova più facilmente un lavoro meglio pagato rispetto a un qualsiasi Dottore magistrale uscito con 110 e Lode da Scienze Filosofiche, Lettere Classiche o Beni Culturali; oggi, nella laicissima ed egualitaria Italia del 2022, per inaugurare un teatro si chiama un prete, mentre si impedisce a molti fedeli di avere un luogo dove poter pregare e si mantiene un istituto storicamente fascista (è un fatto, piaccia o no: lo istituì Mussolini grazie ai Patti Lateranensi): l’Insegnamento della Religione Cattolica. Molto meglio, piuttosto che conoscere, obbedire. Sottrarsi al problema nell’unico modo che lo mantiene: assecondandolo. Scegliere di non scegliere, facendo sì che il capitalismo faccia il suo corso: dividere inesorabilmente ricchi e poveri, potenti e impotenti, padroni e posseduti, bloccando ogni tipo di ascensore sociale e di possibilità di ribellione – esportando la democrazia, pacificando conflitti creati allo scopo di portare la “pacificazione”, e così via. Ed è a voi – voi che scegliete di non scegliere, che preferite chinare il capo piuttosto che rischiare di ferirvi, voi che accusavate Falcone di agire per esibizionismo salvo poi piangerlo il 23 di maggio, voi che esultavate quando Salvini firmava i Decreti Sicurezza, voi che davvero credete che Draghi abbia salvato l’Europa e stia salvando l’Italia, voi che andate allo sciopero globale e poi buttate bottigliette di plastica nell’indifferenziata, voi che dopo aver forzato la vostra ragazza a fare delle foto da nuda vi sentite in diritto (dopo averla lasciata o tradita, o magari standoci insieme) a mandarle su Telegram – che mi rivolgo. Sappiate che è vostra la responsabilità di questo mondo distrutto e capovolto, in cui i salvatori stanno rinchiusi in stanzette isolate da tutto e i criminali seggono comodamente su troni ben esposti al pubblico. Si dirà, per fare un solo esempio: è Salvini lo sciacallo che lucra sulla sofferenza degli immigrati e aizza la popolazione. Sì, certo, anche. Ma se questo è lo stesso Salvini che, con una lucidità da Papeete, va a farsi buggerare dal primo cittadino di una città e di un Paese non meno retrogradi del suo partito, le possibilità sono due: o era un genio che ora è mutato in babbeo, oppure lui è sempre lo stesso e il problema sono i suoi elettori (che, per dire, quando il Matteo si sputtana vanno in massa dalla Giorgia). Ed è questo, di fatto, che rende inesorabilmente permanente la nostra condizione: che queste ingiustizie che viviamo, che ci attanagliano, che rendono questo mondo per qualcuno più vivibile da morti che da vivi, sono – già di per loro – benissimo pensate e perfettamente strutturate per scacciare qualunque resistenza. Ma, com’è ovvio, se di resistenza non ce n’è proprio (e anzi: c’è consenso!), il nostro destino è semplicemente già segnato, e possiamo anche definirlo: è, sarà, e in fondo è sempre stato, l’esasperazione della miseria già presente.
Un fiume in piena. Travolgente, inevitabile, necessario. Devastante nella sua potenza, terribile nella sua esplosione, eppure – dolorosamente – imprescindibile.
Non c’è altra strada che questa, temo. Dapprima un’analisi, certo mediata e filtrata da non pochi stratagemmi espositivi, ma pur sempre un’analisi; in secondo luogo uno sfogo, certo accurato e argomentato, ma pur sempre uno sfogo; infine un invito – l’invito a smentire Bukowski, quando diceva con il suo stile puntuto, “più capisci certe cose, meno vorresti capirle”. L’invito a dire, a noi stessi e agli altri, che per quanto la massima appena citata abbia ovviamente un senso, anche questa asseconda le logiche che la regolano, e che l’unica via realizzabile è comunque sempre la comprensione, lo studio, la ricerca. Comprensione, studio e ricerca che, a loro volta, rendono possibile quell’analisi che ho appena indicato come primo momento, inevitabile e inevitabilmente primigenio.
Ecco, dunque, come trovare la quiete nella tempesta. Analisi, sfogo, studio. Detta altrimenti: comprensione, rigetto per quanto compreso, ulteriore approfondimento. Sempre più verso la profondità della materia studiata, sempre più verso gli abissi di questo mondo esausto.
Inspiro. Espiro. Respiro. Riguarda quel capitolo, mi dico. Il primo paragrafo si intitola Frammenti di sé. Il secondo è più onirico: Il segreto della bellezza. Rileggi quel passo, mi ordino. Pensa a quanto hai fatto, e a quanto ancora puoi fare. Imponiti di andare avanti, sempre avanti, con la calma dei forti e la fragilità dei vincenti. Non fermarti, e continua a cercare. Analisi, sfogo, approfondimento. Analisi, sfogo, approfondimento. E va bene, mi rispondo, rileggiamo quel passo. È, non per caso, a pagina 77. E fa così:
“C’è chi insegue la sua occasione | C’è chi cerca d’esser migliore | C’è chi insegue il suo grande amore | E c’è chi insegue la sua ossessione”.
Poco sotto, leggo ancora: “La verità si può cambiare, si può travestire”. E infine, disperatamente: quando “Mi dai la caccia | Nei miei occhi, segui i miei passi | Non vorrei che tu ci trovassi | La profondità degli abissi”.
Chiudo il libro. Come sempre, sento una voce.
Gentile, ma ferma. Violenta, ma terribilmente sensuale. Lucidamente analitica, ma disperatamente vitale.
Dice una sola frase, brutale perché perfettamente comprensibile, e nettamente irreversibile:
Buona vita, Amore mio.
Federico.