Pensate, lettori, al bruciare di un interrogativo. Pensate se vi mettessero in mano tre nodi irrisolvibili, tre nodi che sono stati discussi per secoli dai più illustri studiosi e tuttavia continuano ad avere i loro segreti. Pensate se combinati in un certo modo, i tre nodi s’addolcissero fino a formare una unica corda. Non parrebbe anche a voi una scoperta proibita, la semplicità che sfocia nel semplice, il semplice che germoglia dall’astruso? Ecco, questo deve aver provato chi ha scoperto che tre numeri sibillini, pi greco, e ed i, se combinati tra di loro nel seguente modo, e^(ip), sono uguali a -1. Ho sempre trovato che in questa uguaglianza ci fosse una eleganza intrinseca. Un’insanabile bellezza.
Mi sono iscritta a matematica come alla disciplina scientifica che più vedevo vicina alla poesia. Seguivo una frase che ancora non conoscevo, l’idea per cui, con le parole di André Weil, “La matematica non è altro che un’arte”.
Tuttavia cosa significa arte, parlando di numeri? Davvero si può parlare d’arte? E se così è, si può parlare anche di bellezza?
Ad accomunare matematica e arte è il fondamentale ruolo della creatività.
Nondimeno, non è così che la matematica viene di solito percepita. Molti di noi hanno legato questa scienza alla memoria di pomeriggi passati a fare calcoli, sommare cifre e computare derivate, creando edifici in cui un segno sbagliato o un cinque scritto male condannavano tutto il proprio lavoro al fallimento. Ricordo bene il mio stupore quando, durante il primo trimestre di università, dopo che un mio intero compito era stato mandato all’aria da una moltiplicazione dimenticata, un dottorando mi ha rincuorato dicendo che molti bravi matematici non sopportano i calcoli. Il fatto è che i calcoli non sono creativi. Il sentiero è già stato tracciato, sai già cosa fare. Dividere, sottrarre, estrarre una radice. La matematica invece di solito è più interessata al momento dell’incertezza, del bivio, della domanda, non solo come si risolve un problema, ma se si può risolvere e perché, e quali porte apre quella soluzione?
La parola “immaginazione” sembra trarre con sè un retrogusto di libertà.
D’altro canto, la parola “libertà” viene spesso associata alla completa assenza di costrizioni. Dunque, come può essere immaginifica la matematica, regno di lemmi, teoremi e corollari? Si dimentica che simili lemmi, teoremi e corollari nascono in uno spazio immaginato. Ricorda Chiara Valerio nella sua “Storia umana della matematica” che tutto ciò che si studia in matematica non esiste nel mondo reale. I teoremi sono tasselli per la costruzione di un mondo altro, come le geografie nei romanzi di Tolkien o le mappe di Westeros.
E si dimentica che, nella creazione di un simile universo, avere dei dettami da seguire può essere uno stimolo. Come un poeta che segue lo schema ritmico di un sonetto, o un artista che dipinge nei confini della sua tela. La sfida della matematica diventa come rispettare le regole esistenti per riuscire a risolvere un problema. E il premio della matematica sta nel riuscire a scoprire nell’intreccio di regole un passaggio segreto, una simmetria, una corrispondenza.
Uno dei miei teoremi preferiti rimane il teorema di Cayley, un semplice assunto di una disciplina chiamata teoria dei gruppi. Ho amato la teoria dei gruppi fin da subito perchè non aveva spazio per i calcoli: più che risolvere problemi, si occupava di costruire architetture matematiche. Guardare lo spazio in cui avvenivano operazioni come addizioni e sottrazioni e studiarne l’ambiente. Mi affascinava scoprire che concetti matematicamente elementari potevano avere lo stesso gruppo di concetti con cui mi arrovellavo per pomeriggi interi. Secondo il teorema di Cayley, in termini tecnici, ogni gruppo è isomorfo al sottogruppo di un gruppo simmetrico. In parole povere, questo teorema implica la perpetua presenza di una corrispondenza. Ogni gruppo ha un compagno, uno specchio, all’interno del più archetipico dei gruppi.
Mi fa pensare a quel verso di Dante, amor che a nullo amato amar perdona. Nella vita reale, tutti prima o poi ne abbiamo constatato l’amara menzogna; nella teoria dei gruppi, invece, la felice simmetria ancora permane.
Dopo tre anni di matematica, continuo ad indicare creatività e bellezza come una delle ragioni che mi ha spinto a studiarla. Poi mi assale il dubbio. Dubbio perchè molti giorni fatico a raggiungerla, fatico persino a ricordarmi della sua esistenza, circospetta perchè per ogni esercizio riuscito ne rimangono quattro irrisolti e spesso anche quello risolto si rivela sbagliato o impreciso, o parziale. Dubbio perchè, ormai me ne sono resa conto, la maggior parte del tempo si tratta di esercizio su esercizio, rituali di fronte ad un altare votivo, offerte ad una divinità che potrebbe benissimo non presentarsi. Ma non è forse così anche per l’artista, lo scrittore, il poeta? Funzioni iperboliche che tendono ad un asintoto, consapevoli che non lo raggiungeranno mai, eppure incapaci di abbandonare la corsa. E di tanto in tanto nella fatica spunta un assunto che valga la pena seguire, un teorema di Cayley, uno stralcio di simmetria, di ordine, una corrispondenza d’amorosi sensi. Di cosa parliamo quando parliamo di matematica? In fondo, come sempre, parliamo d’amore.
Francesca Parrotta