“The Northman”: il ritorno gracchiante e ruggente del regista Robert Eggers

Nel 2006 Robert Eggers girò il suo primo cortometraggio, ispirato alla fiaba dei fratelli Grimm Hansel & Gretel.
In questo lavoro si intravedevano già alcuni tratti che sarebbero stati caratteristici del suo cinema: l’uso della macchina a mano, la scelta di un bianco e nero anticato (poi ripreso in maniera elegantissima in The Lighthouse e in alcuni momenti dell’ultima opera, The Northman), l’aspetto immaginifico mischiato all’orrore, ecc.
Ma un elemento su tutti, se si pone attenzione, risalta all’occhio nella sua prima opera: il rapporto di contrapposizione tra i protagonisti e gli animali, che ritorna in maniera assidua in tutto il suo cinema.

Nel corto del 2006, in una scena in cui i due piccoli protagonisti corrono nel bosco, ad un certo punto si imbattono in degli uccellini che appaiono come loro persi, alla ricerca di una guida.
Come in The Witch, l’esordio assoluto di Eggers nel lungometraggio, con la figura del caprone nero Black Phillip che, allevato da una famiglia di contadini nell’Inghilterra del 1600, viene accusato dalla famiglia di essere la causa di tutte le disgrazie che le accadono.
Esattamente come verrà accusata la figlia dei contadini, protagonista del film, interpretata da una giovanissima Anya Taylor-Joy.
Lo stesso in The Lighthouse, il film con Robert Pattinson e Willem Dafoe protagonisti, in cui il primo si confronta continuamente con la figura del gabbiano che, pur potendo volare, appare come i protagonisti attratto/bloccato sull’isola maledetta dalla quale potrebbe scappare in qualsiasi momento ma dove (spoiler alert) finirà per morire per mano del personaggio di Pattinson, come poi quest’ultimo farà a sua volta da banchetto per un gruppo di gabbiani.
Nell’ultimo film, ennesima e definitiva conferma del talento visionario e narrativo di Eggers, il protagonista, l’originale principe Amloði (Amleto) deve vendicare il padre dopo l’omicidio per mano dello zio Fjolnir, oltre a salvare la madre, la regina Gudrùn.

Tralasciando i meriti puramente artistici nel costruire quest’opera ad alto budget che, su ammissione dello stesso attore protagonista Alexander Skarsgård, è un omaggio non solo alla storia originaria che ispirò l’Amleto di Shakespeare ma anche alle leggende scandinave che hanno attraversato i secoli fino ad arrivare ai giorni nostri, il film torna più che mai sul rapporto tra persone e animali che costituisce uno dei principali fils rouges della cinematografia di Eggers.

In questo film, i primi animali (che, seguendo le tradizioni scandinave, sono visti come parte dell’identità delle persone) a comparire con insistenza sono il corvo, con cui viene identificato il padre del protagonista, il re Aurvandil, e la volpe.
Quest’ultima, in particolare, è l’animale che compare più volte nel film e con cui il protagonista più si identifica: non solo negli sguardi o nei movimenti solitari, ma soprattutto nella fame cieca e piena di rabbia (da una parte di galline, dall’altra di vendetta).

Da non dimenticare, poi, uno dei riferimenti più iconici alla cultura scandinava: in un momento del film, quando il protagonista si finge schiavo per avvicinarsi alla famiglia dello zio Fjolnir, il nome con cui si fa chiamare è Bjorn Ulfur, letteralmente “orso lupo”.
Non a caso, è lo stesso attore protagonista ad aver ammesso di aver accolto “l’animale che è in lui” per interpretare il personaggio di Amleto, con tanto di ruggiti e grida di battaglia che tornano in più momenti durante il film, dando un aspetto crudo, quasi preistorico a quest’opera che dà il definitivo benvenuto a Robert Eggers nel gruppo dei maestri dell’orrore più influenti di questo secolo.

Nicola Albano

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