L’intervista ad Alberto Bertoni – parte I

Abbiamo ricevuto dal Dottor Bertoni, che ringraziamo ancora, un testo molto lungo – ma, a nostro parere, davvero interessante. Al posto che operare una rischiosissima opera di taglia e cuci, abbiamo scelto di pubblicare qui domande e risposte in due parti, una oggi e l’altra domani. Buona lettura!

Fotografia by Dino Ignani.


Chi tra i nostri lettori ha seguito la diretta Facebook “Poesia e voce: parlare i versi”, ha già avuto il piacere di sentir parlare il nostro ospite speciale, Alberto Bertoni. Poeta e professore universitario di Letteratura Contemporanea presso l’Università di Bologna, è uno dei fondatori del Poesia Festival di Modena, e da anni collabora con Diana Manea (lei stessa ha definito il loro rapporto un “duetto fisso”).

Innanzitutto, professore, ci teniamo a ringraziarla per averci concesso questa intervista. E le chiediamo quindi, al di là di questo breve cappello introduttivo, di raccontarsi ai nostri lettori. Chi è Alberto Bertoni, e che percorso l’ha portato ad essere quello che è oggi?

     Il desiderio e il bisogno di poesia, comunque, incubavano in me fin dagli anni delle scuole elementari, ma si sono manifestati con forza autonoma e consapevole nel 1967, quando avevo dodici anni, a partire da due impulsi: il primo provocato dall’antologia adottata nella mia classe delle scuole medie inferiori, che era Leggere, edita da Zanichelli, dove venivano riportate poesie di tre poeti ancora vivi, Montale, Ungaretti e Quasimodo. Mi piacque e mi colpì molto l’idea che ci fossero poeti ancora viventi di cui era lecito studiare i testi a scuola: fino ad allora avevo pensato che, se si aveva bisogno di poesia, ci si potesse iscrivere solo a una Dead Poets’ Society. Poiché mia madre era maestra elementare e i miei genitori mi avevano inculcato fin da piccolissimo l’idea che il mio dovere/mestiere era quello scolastico, alla scuola avevo attribuito una funzione piuttosto sacrale, che qualche volta – per colpa prima della matematica e poi, al Ginnasio, del greco – mi procurava incubi, ansie da prestazione e malesseri psicosomatici sparsi. Oggi, naturalmente mi piange il cuore, nel constatare che i miei studenti ventenni di laurea triennale, alle medie superiori hanno letto sì e no qualcosa di Ungaretti e di Montale, due poeti nati nell’Ottocento, e nulla degli autori e delle autrici nati invece nel Novecento, a partire da quelli straordinari degli anni Dieci: Sereni, Caproni, Luzi, Bertolucci.

   Tornando alla poesia, di Quasimodo non ricordo granché, non l’ho mai amato tanto, a parte la faccenda dello stare soli sul cuor della terra, feriti da un raggio di sole, prima della subitanea sera. Di Giuseppe Ungaretti ho subito ricordato molto bene, invece, con una punta d’ironia ancora inconsapevole, il
M’illumino
d’immenso
di Mattina, ma ancora più vividamente mi ricordo l’amore, il trasporto immediati per Meriggiare pallido e assorto di Montale. Io prestavo già un’attenzione quasi maniacale al linguaggio (sulle questioni soprattutto dei sinonimi e dei significati multipli di una stessa parola interpellavo continuamente mia madre, fin quando – un bel giorno – lei non ha più saputo rispondermi) e di quella poesia mi sconvolse l’uso ripetuto dei verbi all’infinito. Allora soffrivo di noie frequenti, improvvise e devastanti, soprattutto quando i miei genitori e i miei nonni per i mesi interminabili di luglio e di agosto mi trascinavano a Marina di Carrara, a far vita di spiaggia: siccome sono stato sempre insonne (e dunque non ho mai consumato pennichelle o siestas), il “meriggiare” l’ho vissuto sulla mia pelle e, benché a dodici anni non fossi ancora affetto dal male di vivere, questo meriggiare pallido e assorto mi coinvolse moltissimo, tanto da essere anche oggi – quasi mezzo secolo dopo – una delle mie poesie preferite. Evidentemente lo era anche di Montale, visto che su quella poesia ha accreditato la probabile bugia di averla composta addirittura nel ’16, senza che di allora sia mai stata ritrovata una traccia autografa: e ciò può significare soltanto che l’autore stesso attribuisse a Meriggiare una funzione particolare, accreditandola ai suoi vent’anni.    

      La passione delle poesie lette sfogliando a caso (e senza la guida dell’insegnante) la mia antologia scolastica, un Leggere che mi suonava come imperativo, trovò un corrispettivo esistenziale, il primo vero correlativo oggettivo delle mie angosce adolescenti. Si parlava di uomo occidentale “in crisi”, allora, la filosofia dominante era l’esistenzialismo predicato da Sartre e da Moravia… Ma la mia personale crisi di dodicenne inquieto (che già per l’appunto comprava e “divorava” i dischi dei Beatles ed aveva cominciato a leggere thriller ogni sera prima di provare a dormire) era più prosaicamente motivata da un’infelicità calcistica. Infatti, nel maggio-giugno del ’67 la mia squadra del cuore, l’Inter, aveva perso nel giro di pochi giorni la Coppa dei Campioni in finale col Celtic Glasgow a Lisbona e lo scudetto, sconfitta a Mantova per colpa di una papera clamorosa del suo portiere Sarti, a favore della Juve: io ne subii uno choc molto violento, tanto che fu quella una delle rarissime volte in cui singhiozzai disperatamente in pubblico. In proposito, è curioso il fatto che la grande maggioranza dei poeti più importanti del secondo Novecento sia stata o sia tifosa dell’Inter, da Vittorio Sereni a Giovanni Raboni, da Luciano Erba a Maurizio Cucchi, da Tiziano Rossi a Umberto Fiori, da Giampiero Neri a Fabio Pusterla, da Mario Benedetti a Giancarlo Sissa, da Fabio Scotto ad Andrea Gibellini, da Maria Luisa Vezzali a Marco Sonzogni, da Christin Sinicco a Cristiano Poletti, così scendendo per li rami…

Il problema è che da allora non ho più smesso. Il mio amore per Montale è diventato viscerale, anche se poi ho incontrato e conosciuto tanti altri poeti da amare, su tutti Vittorio Sereni, Andrea Zanzotto, Edoardo Sanguineti e Giovanni Giudici, lui molto frequentato anche di persona nell’ultimo decennio del Novecento. 

     In primo luogo, devo dire che in un primo tempo non è stato affatto facile salvaguardare questa attrazione fatale per la poesia, anche per ragioni di appartenenza generazionale e di un’origine radicata a Modena, città antipoetica per antonomasia, nel cui dialetto l’epiteto di “poeta” è quasi automaticamente sinonimo di “matto”.

      La poesia, più o meno sotterraneamente, non ha mai smesso di accompagnarmi anche negli anni ’70 di apprendistato e di formazione all’Università di Bologna, in un decennio molto teorico, filosofico, psicoanalitico nel cui contesto l’atto di scrivere poesia “lirica” veniva facilmente considerato reazionario. Nel chiuso della mia stanza, a Modena, io continuavo infatti a leggere i miei autori preferiti, magari difficili, talvolta oscuri ma mai incomprensibili, come Montale, come Sereni, come lo stesso Ungaretti o come Giudici, Risi, Caproni, Raboni, scoperti in solitudine su qualche scansia appartata delle librerie che frequentavo, la Feltrinelli a Bologna e Rinascita a Modena. In seguito, ho cominciato ad amare molto i poeti anglosassoni e quelli americani, in particolare gli esponenti della beat generation, arrivandoci attraverso Bob Dylan e i protagonisti musicali della West Coast californiana. E nel 1980 m’imbattei in Ora serrata retinae, il libro sorprendente fino ai limiti dello choc di un coetaneo addirittura un po’ più giovane di me, Valerio Magrelli, con il suo dettato ironico e trasparente, sul piano semantico; e nel poemetto Il disperso, di Maurizio Cucchi, nel quale m’identificai in modo quasi naturale, nonostante che la linearità degli enunciati vi fosse fortemente perturbata, com’era perturbata nei due “Novissimi” che nel mio apprendistato universitario avevo imparato molto presto ad apprezzare (e anche a tentar di imitare), Edoardo Sanguineti per quel libro straordinario – ove Dante e Gozzano davvero si combinano – che è Postkarten, del ’78; e Antonio Porta, che con Passi passaggi ebbe nel 1981 il coraggio e il talento di cambiare completamente fisionomia alla sua radice neoavanguardistica.

      Ma la poesia è stata sempre una compagna irrinunciabile, una passione bruciante che ha finito per trasformarsi in una questione prima assolutamente privata (poi sempre più performativa) di sfogo, di riflessione, di rivelazione, di preghiera, di esibizione pubblica, di contatto, di dialogo, di pensiero, di foglio di diario a fine di memoria, che mai nei decenni successivi si è interrotta. Tanto è vero che non passa giornata della mia vita senza che io legga o rilegga una poesia.

     La vera trasformazione, nel passaggio tra XX e XXI secolo, è di ordine antropologico. Infatti, è evidente a tutti che, se qualcuno oggi organizza un festival di poesia ben fatto, sicuramente sale, piazze e teatri si riempiono e agli incontri partecipano molte persone. Lo constato anche attraverso i festival che ho contribuito a organizzare io, come il PoesiaFestival delle Terre dei Castelli attorno a Modena, giunto nel 2022 alla diciottesima edizione, un traguardo tutt’altro che facile; oppure attraverso quelli a cui vengo invitato come critico o come poeta, fra i quali il mio preferito è Pordenonelegge, grazie al lavoro di uno dei primi amici veri e sodali che mi sono fatto nell’ambiente poetico, Gian Mario Villalta. I libri, invece, non si leggono proprio più: la poesia nella sua forma libresca non si compra né si vende né si promuove né si discute (se non entro cerchie ristrette e specializzate), e proprio non le riesce di venire accolta dentro l’orizzonte di acculturamento o di cognizione del lettore medio (posto che ne esista ancora qualcuno). Naturalmente questo “stato dell’arte” porta a un corollario: in funzione di calamite, ai festival vengono invitati a leggere poesie attori e attrici di fama teatrale o televisiva. Quasi mai, però, costoro leggono bene la poesia perché molto spesso la forzano ai timbri e alle intonazioni artificiali della propria voce impostata secondo tecnica da scuola di teatro, oltre che magari al birignao o alla gestualità che ha dato loro un successo di audience, evitando di studiarla e di eseguirla come quella partitura musicale che essa invece è: con l’ovvia conseguenza che, se un poeta va a capo a un certo punto, bisogna introdurre una pausa, il verso va rispettato, mentre gli attori tendono a non farlo. Hanno anche la sfortuna che dopo un modello straordinario come quello di Carmelo Bene, negli ultimi tre decenni del secolo scorso, nessun altro è stato mai più capace di leggere la poesia con quello stesso istrionismo trascinante e con la qualità anche tecnica e tecnologica dei suoi spettacoli, assistiti e illuminati da una competenza di interprete coltissimo e – assieme – straniato, sintetico ed empatico. Certo, esistono eccezioni, soprattutto fra i più giovani e l’eccezione che mi è più cara, per consuetudine e sintonia, è Diana Manea, oggi primattrice del Piccolo Teatro di Milano.

Il nostro evento su Facebook è risultato piacere molto al nostro pubblico, e lei stesso lì ci parlava di come la poesia tuttoggi fosse grande fonte di interesse in tante persone. Quali crede che siano le ragioni di questa — se possiamo chiamarla così — resilienza?

      La metafora che preferisco, in rapporto alla poesia, è quella della poesia come cibo della psiche, inconscio compreso. Essendo, come ho detto in principio, un gran goloso, sono anche convinto che la poesia abbia conquistato un ruolo tanto importante nella mia vita perché ha molto che fare con il cibo. Infatti, come la poesia si scrive e si legge con tutto il corpo – la voce, la bocca, la lingua – e non solo nel silenzio della mente, così il cibo soddisfa assieme una funzione di nutrimento e di piacere che dal corpo si trasmette allo spirito. Inoltre, il cibo è per me il primo e principale elemento di socializzazione con le persone, grazie anche alla sua natura molto ambigua e alla sua doppia faccia: buona e cattiva, quando – come me – si tende a essere recidivi nel peccato di gola; e, più seriamente, quando si constata lo spreco che noi opulenti del mondo occidentale ne facciamo, mentre in altre realtà si muore quotidianamente di fame. Magari ci fosse uno spreco altrettanto diffuso di poesia (letta e da leggere), nel nostro mondo così civilizzato! Nessuno ne soffrirebbe la penuria e tutti vivremmo molto meglio: e in pace, grazie ai meccanismi di catarsi e di dialogicità che la vera poesia sa comunque mettere in campo.

    Poi, la poesia è una forma di igiene linguistica, vale a dire un atto di selezione e di salute che si compie attraverso la lingua e che sulla lingua si rifrange, in positivo. Un grecista di Oxford, Powell, afferma che Omero avrebbe addirittura inventato l’alfabeto per poter fermare i poemi che tratteneva nella memoria e che erano l’ultima fase di elaborazione di un processo creativo lunghissimo e plurale: così sottraendoli al fluire distruttivo del tempo. Dante ha sicuramente inventato e plasmato la lingua che tuttora parliamo a scopo di poesia per la sua Commedia, creando una mediazione geniale fra il dialetto municipale fiorentino che coincideva con il suo “parlar materno” (tutti noi parliamo con il timbro verbale di nostra madre) e le magnifiche, nobili, complesse architetture lessicali e sintattiche del latino. Se uno legge le poesie giovanili della Vita nova o delle Rime, si accorge che dentro ci risuona il dialetto municipale fiorentino, mentre la Commedia è composta in un’altra lingua che corrisponde a ciò che chiamiamo volgare illustre e poi italiano. Quindi non è raro che i capostipiti, gli scrittori archetipici di una tradizione e di una civiltà, abbiano plasmato le lingue scritte, a fine originario e principale di poesia. 

     Infine, la poesia al livello più alto (e sottolineo questa proprietà: cioè, prima di tutto la poesia degli altri, la poesia dei più bravi e delle più brave di noi, che si sono succeduti/e nell’arco dei tre millenni della nostra civiltà occidentale) è una cura di sé, una forma efficace di autoterapia, perché obbliga a quell’atto molto misterioso (e molto difficile da conquistare, soprattutto oggi), che è il fare silenzio dentro di sé. A  questo fine, occorre mettere per qualche ora a tacere il brusio delle proprie ansie, il bisbiglio ininterrotto della chiacchiera attraverso cui le nostre sensazioni di superficie reagiscono d’acchito e d’istinto alla realtà, il vacuo schiamazzo dei propri momenti di passività e d’inconsapevolezza. A ciò si aggiungano il mai sopito rumore di fondo provocato dalla propria difficoltà a rapportarsi con il mondo, i suoni di disturbo e distrazione che costellano la quotidianità, nonché lo schema dei propri automatismi rassicuranti, che in realtà sono solo manifestazioni di quella psicopatologia della vita quotidiana che Freud, più di un secolo fa, aveva già descritto e interpretato con tanto acume. Da questo punto di vista la poesia è una cura in primo luogo dell’udito interiore, del grado di auscultazione profonda del nostro essere e della sua trasformazione in parola originale (non originaria, sia chiaro: non siamo entità angeliche, bensì tutte corporali e fisiche). E poi la poesia è una cura perché coincide con l’apertura all’altro da sé e con l’accettazione che il nostro spazio interiore sia invaso da una voce, da un ritmo, da una lingua altrui, scaturita da un altro e diverso soggetto, il quale in un primo momento può anche farci arrabbiare e può addirittura darci fastidio, fra le psicologie tutt’altro che convergenti del transfert, dell’identificazione riuscita o mancata, degli istinti di accettazione forzata o di rifiuto.

Federico e Benedetta*

* seconda parte del testo in uscita fra poche ore.

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