Avrò avuto dieci anni quando ho visto per la prima volta The Karate Kid. Nonostante l’iconicità di certe scene e battute mi si sia stampata in testa – come dimenticare il “Metti la cera, togli la cera” sulla lunga fila di macchine sporche? –, nel complesso non lo trovai molto appassionante, anzi: se possibile, aumentò la distanza già enorme che una bambina poteva vedere tra lei e il mondo delle arti marziali, qualcosa che sta là, dall’altra parte del mondo, e con cui mai avrebbe avuto che fare. La casualità, tuttavia, mi ha portata da adulta a mettere piede per la prima volta in dōjō1, dove ho intrapreso un percorso marziale nell’aikidō e allo stesso tempo compreso quanta distanza ci fosse tra le mie idee ancora infantili e la realtà.
Non è stata – e non è ancora – una strada semplice. Ci sono voluti dei mesi per smantellare le convinzioni precedenti, composte da combattimenti spettacolari e fumose tecniche imbattibili, e solo dopo che la mia mente si è svuotata ho iniziato ad afferrare un vago senso di ciò che avevo scelto di fare.
Ho un ricordo netto del momento in cui ho capito di trovarmi al punto di partenza. Io e altri principianti stavamo praticando col bokken, la spada in legno, per cercare di afferrare quale fosse la forma corretta di un colpo frontale, quando il sensei2 ci ha fermati, invitandoci a posizionarci in seiza3 a lato del tatami4 Ha spento le luci, ci ha mostrato ancora una volta cosa fare e, uno alla volta, nel silenzio e sotto gli occhi attenti di tutti, abbiamo dovuto replicare il suo lavoro. È stata un’esperienza particolare, molto intima, e quando si è conclusa il sensei ha spiegato un paio di cose – dall’importanza di ciò che avevamo fatto a come posizionare correttamente la spada quando si sta seduti in seiza, con una fluidità che può spaventare una mente abituata a una gerarchia negli argomenti e che sottolinea quanto, invece, tutto sia fondamentale. E mentre ero lì mi sono resa conto di un dettaglio a cui non avevo mai dato importanza: avevo il keikogi5 allacciato al contrario. Da quel momento l’ho sempre messo giusto e ho iniziato a guardare le cose da una prospettiva diversa, a partire dalle basi.
L’universo delle arti marziali, innanzitutto, è molto più vasto di quanto si possa credere. Il nome stesso, arte marziale come arte di Marte, il dio della guerra, fa intuire quanto siano antiche e non abbiano un’origine singola individuabile in un preciso tempo e luogo. Infatti, in prima istanza, con questo termine si indicavano diverse pratiche di tipo fisico ma anche mentale che erano sfruttate per aumentare le possibilità di vittoria durante un combattimento; col passare dei secoli il significato si è allargato a coprire anche le arti praticate nel resto del mondo e si è mitigato, alleggerendo la facciata di mera espressione belligerante ed elevando al contempo l’influenza che tali studi hanno sul miglioramento individuale dell’essere umano.
Diventa quindi semplice intuire che l’idea comune di arte marziale raccoglie solo una minuscola parte del complesso. In ciò, le arti orientali potrebbero essere indicate come il vertice più famoso nella visione occidentale, complice da un lato la fascinazione storica verso l’estremo oriente, dall’altro la spintarella più contemporanea data dalle pellicole degli anni ’70 e ’80 sul tema – quali i lavori di Bruce Lee e, appunto, il franchise iniziato con The Karate Kid nel 1984. Oltre a un interesse sempre maggiore verso il tema, però, ciò ha anche portato una confusione generale che vede mischiate le diverse pratiche, in particolare quelle cinesi e quelle nipponiche.
La storia di questo secondo gruppo affonda le sue radici nella tradizione dei samurai. Membri della casta guerriera della società feudale, i samurai dovevano essere in grado di combattere al meglio a mani nude o con ogni tipo di arma; diventavano quindi dei maestri nell’arte del combattimento e, grazie a ciò, potevano portare gloria al signore a cui erano votati e a loro stessi. Oltretutto, a causa del lungo isolamento del Giappone, l’apparato bellico si evolse più lentamente rispetto al resto del mondo, cosa che consentì uno studio più approfondito dell’uso delle armi, ma anche il definirsi di una struttura di filosofie e insegnamenti variegati, che contraddistinguono le migliaia di scuole e stili attuali. È stato solo infatti con la Restaurazione Meiji (dal 1866 circa) che la nazione si aprì agli influssi occidentali, in seguito a un drastico cambiamento nella struttura sociale e politica che vide il riaffermarsi dell’impero sul governo militare precedente, cosa che a sua volta portò a una definitiva abolizione dei samurai.
È proprio questo avvenimento che segna una macrodivisione nelle arti marziali giapponesi. Le arti nate prima della Restaurazione Meiji sono definite ko-ryū (古流, “antica scuola”), mentre quelle successive a essa sono note come gendai budō (現代武道, “nuova via marziale”), a cui appartengo a titolo di esempio i già citati karate e aikidō.
Quest’ultimo è molto giovane. La disciplina, infatti, appartiene alle arti fondate nell’epoca contemporanea e fu sviluppata da Morihei Ueshiba (1883-1969) – chiamato dai praticanti Osensei, 大先生/翁先生, “grande maestro” – attorno al 1930. Punto di partenza furono gli insegnamenti di altre arti marziali, tra le quali la più importante è stata il Daito-Ryu Aikijujutsu, che è una delle più antiche e nobili scuole di combattimento e di cui Ueshiba è stato praticante dal 1903 al 1908 circa. Svolta importante nella sua vita, però, fu la partenza come colono per l’isola di Hokkaido nel 1911, dalla quale fu costretto a tornare nel 1919 a causa delle condizioni critiche in cui versava il padre; durante il viaggio incontrò Onisaburo Deguchi, a capo di una setta shintoista nota come Omoto-kyo, alla quale Ueshiba decise di aderire per la visione ascetica e spirituale proposta. È stata proprio l’unione di questi due mondi – la via marziale e la visione mistico-religiosa – a portare alla nascita e crescita dell’aikidō prima in Giappone e, dagli anni ’50 in poi, nel resto del mondo.
Non entrerò nell’ambito più tecnico e fisico dell’aikidō, né in questo, né nel successivo articolo. Uno degli aspetti più interessanti riguardanti l’insegnamento è proprio che non dovrebbe essere parlato: il praticante dovrebbe infatti avere la finezza di riuscire a cogliere i dettagli dei movimenti e delle successive tecniche a partire dalle dimostrazioni del sensei, cosa che rende l’apprendimento un processo diretto – e più faticoso per una cultura come la nostra, che poggia tutto sulla spiegazione. I gesti ripetuti, la concentrazione nel farli, l’attenzione per i dettagli… sono degli aspetti che non possono essere trascritti su carta. Ritorna l’iniziale massima del “Metti la cera, togli la cera” che, pur provenendo da un’arte completamente diversa, nel caso della mia esperienza potrebbe essere traslata in un “Metti il tatami, togli il tatami”.
Un gesto ripetuto per aprire la mente alla pratica.
Rebecca
1 luogo in cui si svolge la pratica delle arti marziali.Indietro2maestro.Indietro
3 posizione seduta, con le ginocchia a terra e i talloni sotto i glutei.Indietro
4 pavimentazione composta da pannelli di un materiale morbido su cui praticare.Indietro
5 uniforme usata per la pratica, composta da giacca e pantaloni bianchi.Indietro