Esplosioni, schegge di granate, cumuli di macerie, auto bruciate, così come le case, i negozi e gli uffici – era l’immagine che rappresentava l’Europa centrale, e non solo. Tale polveriera, che aveva contaminato l’Antico Continente, ammorbò anche le quiete terre della nostra penisola. Il conflitto scatenato dalla pazzia di alcuni uomini aveva riaperto l’ormai cauterizzata ferita della prima guerra mondiale, dove l’Italia era sanguinosamente uscita vincitrice. Al termine del 1943, quando l’invasione dello Stivale ebbe inizio, si annusarono i primi sentori che il regime, durato un ventennio, stava per giungere all’epilogo. Quella stessa dittatura – che aveva saputo restaurare un illusorio impero, importante per i cuori dei conservatori più nostalgici, e che aveva rifondato le basi per ristabilire delle nuove gerarchie ai vertici dello Stato, scavalcando gli stessi Savoia scivolati in secondo piano rispetto alle principali decisioni politiche – stava lentamente andando verso la decadenza.
I gruppi squadristi mobilitati dal Duce, come la celeberrima Banda Koch o la divisione Ettore Muti, diffondevano il terrore nelle case, nelle strade, nelle città. A chiunque non fosse stato iscritto al partito sarebbe toccato l’internamento nei campi di lavoro oltreconfine, con una discreta probabilità di non tornare mai più a casa. Gli italiani si ritrovarono, per così dire, tra l’incudine e il martello.
Il loro destino era infatti strettamente legato ad ogni minima decisione che avrebbero assunto; da un lato vi era la neonata repubblica di Salò con il redivivo Mussolini al vertice di un organo autocratico e che aveva una forte supervisione dell’alleato tedesco, il quale aveva requisito la quasi totalità delle risorse militari e non per approvvigionare le proprie truppe di stanza in Italia. Dall’altra parte ci sarebbero gli schieramenti di guerriglia partigiana.
Stavano cominciando a divenire sempre più noti e frequenti infatti degli attentati compiuti dai GAP (gruppi di azione partigiana) che compivano piccole azioni di sabotaggio ai danni dei repubblichini e dei tedeschi e dove, sfruttando le loro ampie conoscenze dell’ambiente, riuscivano a destabilizzare parzialmente l’apparato militare nazifascista. Tuttavia i rischi erano enormi, essere catturati avrebbe significato la fucilazione non solo propria, ma anche dei propri cari e parenti; avrebbe comportato l’esproprio di tutte le proprietà e l’immediato licenziamento da qualsiasi posto di lavoro. Essere un partigiano significava essere disposti a rischiare di sacrificare ogni cosa per la quale si era combattuto. Le alternative erano quindi rischiare di perdere ogni cosa più cara oppure schierarsi dalla parte di colui che aveva messo in ginocchio la Nazione, entrando in guerra da quel balcone di Palazzo Venezia, il 10 giugno 1940. La propaganda architettata dall’Agenzia Stefani, con sede proprio a Salò, diventò il fulcro della politica mussoliniana nel disperato tentativo di riportare dalla sua parte l’opinione pubblica e le simpatie del suo popolo.
I media, i giornali e le radio comunicavano costantemente ai cittadini gli aggiornamenti del bollettino di guerra, così come perseverarono nella loro campagna diffamatoria e ingiuriosa che osteggiava coloro che non si erano ancora piegati alla volontà dei nazifascisti e che quindi non si erano iscritti al Partito Fascista. Le immagini propinate sui volantini, sulle affiche e sui giornali dipingevano gli invasori come degli assassini stupratori privi di facoltà di ragionamento o di alcun barlume di umanità. S’allarmavano gli italiani sulla incapacità e inadeguatezza degli angloamericani di comportarsi da esseri umani bensì da inette belve selvagge antropomorfe, e su come non ci sarebbe stato più spazio per l’umanità in cuori così incivili.
Quel fenomeno che oggi ci appare evidente quando leggiamo un articolo carente di informazioni utili se non addirittura false, chiamate fake news, è un concetto non troppo distante da quello che attanagliava l’Italia degli anni del Ventennio. Le notizie giunte dal fronte erano sempre edulcorate in versioni più compatibili alla linea di successo del Regime; i bollettini di guerra giungevano puntualmente riportando, dapprima i nomi dei Caduti, in seguito sarebbero state riportate quotidianamente solo il numero delle vittime. Questo fu fatto proprio per dare qualche speranza in più ai cittadini che avevano qualche parente al fronte. Costoro passavano gran parte delle loro giornate a svolgere le proprie mansioni civili che ripresero anche durante tale periodo bellico. Le scuole riaprirono, così come gli uffici e le fabbriche dove le donne divennero la risorsa principale per rimpiazzare gli uomini impegnati a difendere l’RSI e a stanare i ribelli partigiani dalle loro tane. Tale momento storico fu condito da bombardamenti da parte dei famigerati cacciabombardieri comunemente chiamati “Pippo” sui quali la propaganda fascista investì diversi sforzi per ricordare al popolo italiano che, tra i danni causati da tale pioggia di bombe, vennero distrutte anche diverse scuole, ospedali o chiese ricche di opere d’arte come quelle del Mantegna custodite nella chiesa degli Ermitani a Padova.
Questo dimostrava quanto poco interessasse agli angloamericani distruggere solamente target militari.
Il modo più semplice di creare coesione in un gruppo e renderlo ancora più conservatore e ancorato all’ideologia fascista fu quello di contrapporgli diversi nemici. Come sottolineò più tardi lo psicologo Tajfel, negli anni ’70, con il suo esperimento Klee-Kandinskij: contrapporre due gruppi che differiscono anche per caratteristiche superficiali come chi preferisce la pittura di Klee piuttosto che quella di Kandinskij può indurre ad una maggior rivalità e competitività tra le due parti. Lo stesso fece Mussolini inducendo gli italiani a pensare che le nefandezze e le insidie che incombevano su di loro derivassero da tanti fronti diversi e che il fascismo sarebbe stato li per difenderli. Oltre ad essere dipinti come “negroidi”, gli angloamericani erano l’immagine della borghesia e dello sfruttamento per eccellenza. Venne costantemente sfruttata l’immagine di John Bull, una caricatura inglese che rappresenterebbe la nazione stessa, attraverso un grossolano borghese sovrappeso che cammina con il bastone e che venne più volte utilizzata dalla propaganda di Salò per dimostrare che in realtà dietro quel grasso innocuo buontempone vi fosse un subdolo e avido profittatore, pronto a tutto per prosciugare le persone ed estorcere loro fino all’ultima goccia di ricchezza, per poi appenderle ad essiccare al sole come abiti bagnati.
La propaganda fascista si dimostrò una formidabile arma per addomesticare e rabbonire la popolazione. Fu un’alleata portentosa per il Regime, e rammentò al mondo intero che, attraverso l’utilizzo dei media e dei giornali, era possibile sovvertire gli ordini naturali di uno Stato civile e moderno come l’Italia o la Germania.
Ha ricordato che, in primis, l’italiano può credere ciecamente alle parole proferite da un’autorità rispettabile ed eminente come il Duce, se rassicurato da un sistema che gli garantisce sicurezze e tutele che gli permettano di vivere in sicurezza; non solo: ha ricordato anche che gli italiani hanno combattuto per amore della Patria e che quindi, seppur abbiano sparso (come i tedeschi) molto sangue in guerre civili, stragi, invasioni, verranno sempre visti come “coloro che sono stati trascinati dai tedeschi”, coloro che hanno saputo scavalcare qualsiasi ostacolo per difendere i propri cari. In fondo, gli italiani sono brava gente…
Dario