Svuotare la tazza di tè

Come ogni percorso, nel dōjō1 a cui appartengo anche la pratica aikidoistica ha una sua ideale conclusione al termine dell’anno: il gasshuko. In breve, consiste in un ritiro estivo di quattro giorni di pratica intensiva e meditazione, durante i quali l’immersione nel mondo marziale è così massiccia da far mettere da parte qualsiasi cosa non sia l’aikidō e il qui e ora a cui si è costretti – e infatti, una volta tornata a casa pochi giorni dopo aver pubblicato il primo articolo di questa rubrica, ho provato uno strano senso di straniamento, come se fossi stata via per un mese intero e non per una manciata di giorni.

Il gasshuko è parentesi, qualcosa di impossibile da far comprendere a chi non l’ha mai vissuto sia per la difficoltà a spiegarne l’intensità, sia per la sua caratteristica intrinseca di essere sempre diverso dal precedente, slegato dagli schemi precostituiti in cui si tendono a incasellare determinati avvenimenti. Una particolarità di quest’anno è stata la scelta di aprirlo anche ai più giovani, ragazzi e ragazze tra gli undici e i tredici anni, cosa che ha creato un disequilibrio tra gli altri partecipanti; è stato necessario trovare un modo diverso per approcciarsi alla pratica, che non comportasse una divisione netta tra i due gruppi e portasse, invece, a un’interazione proficua.

Non so quanto abbia funzionato nel complesso, e non è mio compito fare tali valutazioni, però posso dire che è stata un’importante lezione rispetto a un concetto che era stato affrontato più volte all’interno del dōjō, ovvero quello della mentalità del principiante.

Un buon praticante è colui che è in grado di tornare indietro, di provare ancora la stessa fame e curiosità dell’inizio. Annullare le idee che si hanno su di sé e sulle capacità che si pensa di possedere, invitando quindi la mente a essere aperta e recettiva, è fondamentale per poter accogliere qualsiasi suggerimento e farlo proprio. C’è un particolare apologo zen legato a questo insegnamento. Un allievo, invitato a una cerimonia del tè, rifiutava ogni spiegazione donatagli dal maestro dicendo di non averne bisogno, in quanto sapeva già tutto; l’uomo, allora, in risposta a una tale dimostrazione di arroganza, gli versò il tè fino a quando non strabordò dalla tazza e, davanti alle rimostranze dell’altro, gli disse:

“Se non svuoti la tazza, come la posso riempire!”

La mentalità dal principiante sta tutta qui. Bisogna sapere creare dello spazio per ricevere gli insegnamenti, essere in grado di svuotare la propria tazza senza mai pensare che non ci sia più alcuno spazio. Per fare un parallelo con un assioma occidentale, è un po’ come il socratico “sapere di non sapere”, ovvero avere la netta consapevolezza che, a dispetto di quanto ci è già noto, ci sarà sempre qualcosa di sconosciuto e da apprendere.

È anche una questione di umiltà e generosità, aspetti legati a doppio filo al concetto appena espresso e che, agli inizi, non mi erano chiari. Ora come ora, mi viene da sorridere a pensare a certe cose che facevo i primi tempi, come il fatto che mi rifiutavo di tagliare alcuni braccialetti che erano chiusi da un nodo e che, quindi, non sarei più riuscita a indossare. È abbastanza ovvio il motivo per cui avrei dovuto toglierli senza fare troppa resistenza – durante la pratica possono essere pericolosi per me e per altri –, però ci sono voluti dei mesi per rendermene conto, nonché un intervento da parte del sensei2 che, in seguito all’ennesimo impigliarmi nel keikogi3 di un compagno a causa di un ciondolo, mi ha preso il polso incriminato e mi ha detto: “Non essere egoista!”

Alla pratica successiva non avevo più niente.

L’umiltà e la generosità sono degli aspetti cardine nell’ambito dell’aikidō. Non a caso si è sempre in due durante l’esecuzione delle tecniche, uke4 e tori5, e sempre non a caso entrambi i ruoli sono fondamentali. Ciò si nota in particolare nel ruolo dell’uke, visto spesso come figura passiva in quanto è colui che riceve la tecnica: se lui non accoglie in modo attivo i movimenti del tori, entrambi i praticanti non riusciranno a capire a fondo ciò che stanno facendo, ma si limiteranno a svolgere dei movimenti in maniera meccanica.

Per arrivare a praticare correttamente, quindi, bisogna anche capire che accettare la tecnica non significa cedere completamente. È in parte a causa di ciò se, nel caso dell’aikidō, si parla di non resistenza. Al contrario di altre discipline, non si ha un mezzo di conflitto, in quanto l’accento è posto sull’accettare le forze che arrivano e trasformale, in accordo con ciò che è stato insegnato da Morihei Ueshiba, che non vedeva come fine il distruggere gli altri. La non resistenza sta in ciò, che a sua volta è da vedersi come la messa in pratica del ki-no-nagare, ovvero lo scorrere fluido del ki.

Quest’ultimo è un concetto racchiuso anche nel nome dell’arte stessa. Il termine aikidō è formato da tre caratteri che, translitterati, hanno il seguente significato:

  • ai, 合, che significa armonia o unione
  • ki, 氣, che è lo spirito da vedersi come energia vitale che sostiene ogni cosa
  • do, 道, con cui si intende la disciplina in senso fisico e spirituale

Da un punto di vista letterale, si parla quindi del modo di unificare le energie, ovvero della disciplina che porta all’armonia con l’energia vitale e lo spirito dell’universo.

È difficile, quindi, che la pratica non abbia un’influenza anche su altri aspetti nella vita dell’akidoka. Se il fine non è sconfiggere gli altri, è invece sconfiggere se stessi e le caratteristiche più negative che ci portiamo dentro. Non si ha a che fare con una mera disciplina sportiva, ma con un vero e proprio strumento per l’evoluzione personale.

La parte di me più cinica, a sentire parole del genere prima di iniziare questo percorso, sarebbe scoppiata a ridere e le avrebbe liquidate in fretta, senza prestarci molta attenzione. Nella mia esperienza, però, ho avvertito in effetti dei cambiamenti, dettagli che, impilati, mi mostrano quanto ho imparato e quanto sono cambiata: una minore ansia davanti agli esami universitari, la capacità di affrontare con più calma alcune situazioni, il modo diverso che ho acquisito nel rapportarmi con gli altri… piccolezze, ma che nel complesso mi fanno sentire una persona migliore di quando ho iniziato. Ho svuotato la mia tazza, insomma. C’è meno rabbia, c’è meno supponenza. E c’è anche ancora tanta strada da fare. Il bello dell’aikidō è che non c’è una linea del traguardo da tagliare, ma solo un lungo percorso da godersi di giorno in giorno.

Rebecca

1 luogo in cui si svolge la pratica delle arti marziali.Indietro
2maestro.Indietro
3 uniforme usata per la pratica, composta da giacca e pantaloni bianchi.Indietro

4 colui che attacca e riceve la tecnica. Indietro

5colui che riceve l’attacco e lo trasforma. Indietro

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