Dialoghi teatrali – Silvia Pallotti e Tommaso Russi

Silvia Pallotti e Tommaso Russi, il 16 maggio, scrivono al nostro blog. Ci invitano a visionare il loro spettacolo, Il buio non è tenero. Quei 65 minuti, forse qualcosa in più, conquistano il sottoscritto – il fortunato fruitore del biglietto omaggio. Oggi abbiamo per voi qui entrambi gli interpreti dello spettacolo, in un dialogo speriamo ricco e interessante per chi lo leggerà. Iniziamo subito: mi farebbe piacere informare i nostri lettori di quali sono stati i vostri rispettivi percorsi, di come siete arrivati a fare questo, di come vi siete trovati… Poi andiamo più nello specifico con lo spettacolo.

Silvia (da qui, S): Ho fatto la Statale di Milano, lettere moderne, e lì ho iniziato un po’ la formazione teatrale con la scuola di Grock (ho fatto il triennio); poi ho fatto un anno di formazione sulle tecniche del mimo e del clown sempre a Milano; finito quell’anno sono entrata all’Accademia teatrale veneta, dove ho conosciuto Tommaso, quindi abbiamo fatto anni di percorso di formazione in Accademia, condividendo molto, e questo ci permette di avere un lessico comune – oltre agli anni di esperienza accumulati insieme una volta usciti dall’Accademia. A lavorare insieme al primo progetto di spettacolo (Il buio non è tenero) abbiamo iniziato verso la metà del terzo anno di Accademia. C’era già il desiderio di lavorare insieme, e c’era già anche l’idea di lavorare su un tema preciso, quello della precarietà, e quindi da gennaio del terzo anno abbiamo cominciato a lavorare al primissimo nucleo di questo spettacolo – ciò che abbiamo chiamato la “danza del buio”, che è stato proprio il cuore pulsante di questo lavoro. Il primo studio di questa “danza del buio” l’abbiamo fatto ad aprile 2019, quando eravamo ancora in Accademia, al Laboratorio Occupato Morion di Venezia.

Tommaso (da qui, T): Io sono di Milano, di Corvetto, e non ho fatto l’università. Finite le superiori sono stato 6 mesi al C.U.T. di Perugia, e poi sono andato a Venezia dove ho incontrato Silvia. Noi abbiamo avuto la fortuna che prima ci siamo conosciuti nel lavoro e dopo ci siamo detti di fare qualcosa insieme, il che è iniziato – come diceva Silvia – con Il buio non è tenero e si è sviluppato con un progetto sulla poesia contemporanea che si chiama non tutti i poeti sono morti in cui facciamo reading-spettacolo e dei laboratori di scrittura e lettura ad alta voce. Dentro questo reading-spettacolo avevamo anche Patrizia Cavalli, che purtroppo non c’è più. Non tutti i poeti sono morti è un progetto per le scuole, tendenzialmente superiori come fascia d’età, mentre c’è un altro progetto, Gli echi del corpo, che è più pensato per fare pedagogia del corpo all’interno della scuola, quindi il teatro come mezzo per entrare in relazione con il proprio corpo e con il corpo degli altri (per elementari, medie e superiori). 
Quindi sì, ci siamo incontrati in Accademia e abbiamo cominciato a lavorare assieme su un progetto di spettacolo, ma andando avanti è l’abbiamo reso un progetto di compagnia, che è quello de il turno di notte, e infatti quest’estate inizieremo a lavorare al prossimo lavoro sul tema del sentimento di impotenza.

Diciamo a chi leggerà questo dialogo sia di cosa parla lo spettacolo sia in che modo. Voglio dire: come questo spettacolo racchiuda in sé e raccolga meglio di tante parole questi intenti e questi temi che avete presentato velocemente adesso.

S: Lo spettacolo ha come tema quello della precarietà, intesa dal punto di vista lavorativo ma non solo, perché poi, a pioggia, c’è una condizione di precarietà esistenziale relazionale affettiva molto forte, che ha a che fare con il tipo di società in cui siamo immersi. Finita l’Accademia, ci si apriva un po’ il vuoto della fine del percorso di formazione e la necessità di costruirsi piano piano e siamo partiti da quel sentire che avevamo. Nello spettacolo c’è un momento in cui un sogno deve trovare un progetto affinché possa trovare spazio nella realtà oppure deve essere messo da parte. Ecco, noi eravamo proprio in quel momento lì. Ma questo sentimento è più grande di noi, perché lo percepivamo (e lo percepiamo tuttora) fortissimo in tanti coetanei ma anche in persone molto più grandi di noi. C’è questa continua ipoteca sul futuro, questa impossibilità di avere una prospettiva a lungo termine legata alle tipologie dei contratti, sul mondo del lavoro, all’incertezza anche di dove metterti, dove cominciare a costruire, qual è il luogo migliore. In qualche modo ti costringe a destreggiarti in una condizione di equilibrismo che, secondo noi, è più forte in questo momento storico che in altri. 
Sono del resto convinta che questa società si nutra attraverso tante dinamiche di questa precarietà, cioè la alimenta per trarne un guadagno, perché il fatto di essere precario e di essere così incerto ti porta anche a essere disposto a – per esempio – ad andare al ribasso su quello che pretendi o che ti sembra un diritto avere, per ottenere quello che desideri.

T: Ci siamo resi conto, e vediamo intorno a noi, che è come se ognuno di noi fosse una piccola impresa. E questo ha delle conseguenze su tutto, su come vivi gli affetti, su come disponi del tuo tempo… Per indagare questi temi abbiamo cercato di lavorare su diversi piani. Abbiamo preso questa storia di lui e lei, con un arco narrativo abbastanza lineare, dove ci sono due ragazzi verso la fine dei vent’anni, precari in tutto, che si incontrano per caso e insieme tentano di supportarsi per arrivare a realizzarsi in qualche modo – e ciò assume significati diversi. Oltre a questa linea abbiamo sia all’interno della storia di loro due, sia prendendo dei quadri a parte con all’interno dei momenti con un linguaggio fisico che potesse essere più astratto, ma che comunque colpisse il tema. Quindi abbiamo elaborato questi tutorial su come si fa a essere adulti, lavorando insieme al corpo, al movimento, con le torce, con il buio, e poi abbiamo anche pensato di includere due quadri che trattassero il tema ma che fossero completamente al di fuori rispetto alla storia di lui e lei e con un linguaggio ancora diverso. Sono “l’ultimo homo sapiens-sapiens”, un uomo che è l’ultimo di questa specie che si è ormai estinta ma che nonostante tutto continua a desiderare, e “una venditrice di delusioni”, una pausa pubblicitaria all’interno dello spettacolo in cui c’è questo sponsor che ti vende la delusione giusta al momento giusto. Ultima cosa: ci piaceva l’idea (anche perché spesso noi chiamiamo direttamente lo spettatore, non portandolo in scena ma dialogandoci) di accogliere lo spettatore nello spazio in cui facciamo lo spettacolo. Quindi dall’inizio noi siamo lì, chiacchieriamo con chi c’è, e poi a un certo punto ci stacchiamo per continuare.

S: Questo momento ha due aspetti, oltre al desiderio di farlo a cui accennava Tommaso: da un lato rientra in un’altra delle linee dello spettacolo (le scene che facciamo al microfono dove siamo proprio Tommaso e Silvia, che, parlando direttamente con il pubblico, condividiamo ricordi o racconti legati alla nostra esperienza, alla nostra biografia che hanno a che fare con il tema). Quindi anche l’iniziare con noi stessi, Tommaso e Silvia, che danno il via a quest’evento collettivo che sta per accadere entra già nella costruzione di quella linea lì che viene sviluppata nello spettacolo. Il secondo aspetto di questo inizio è che per noi fare teatro significa anche creare dei momenti di cerchio. È una cosa a cui crediamo molto e un obiettivo che ci diamo in tutti i lavori che facciamo. Bisogna lavorare affinchè lo spettacolo sia un momento di cerchio reale, ed è quello che cerchiamo di fare. Ma è un momento di cerchio anche il laboratorio. Per esempio, il fermarsi dopo lo spettacolo con chi ha voglia di fare due chiacchiere, ha anche molto a che fare con il processo creativo che abbiamo immaginato per quest’ultimo progetto che stiamo iniziando, in cui il momento di indagine sul tema passa attraverso momenti di cerchio in cui incontriamo altre persone, altri gruppi con cui lavoriamo e ci poniamo domande su cui poi costruiremo lo spettacolo, proprio perché il teatro diventi in ogni momento occasione per creare cerchio, per creare comunità e lavorare su una relazione.

Visto che è venuto così spontaneamente, vi chiedo qual è il prossimo progetto, di cosa parla e come è avvenuto il processo creativo.

T: Il prossimo progetto si chiama Fragileresistente, per ora, ed è un’indagine che vorremmo fare intorno al sentimento di impotenza. Per ora il lavoro è in una fase in cui abbiamo già fatto dei laboratori con la cittadinanza, come diceva Silvia, uno a Teatro Sotto il Lucernario, dove abbiamo fatto una call per cittadini e cittadine interessati al tema, e uno alla Cascina Fanzago (Lodi), dove c’è un gruppo di persone che ha deciso di vivere in comunità. Il laboratorio si chiama Materiali per un mondo impossibile e l’idea è di, attraverso il laboratorio teatrale, indagare il tema, avere un incontro con le persone intorno a questa tematica, sia per noi per entrare già in modo collettivo nel mondo di questa questione e darci la possibilità di essere molteplici, sia perché riteniamo che possa essere importante riuscire ad affrontare già un po’ questa questione non solo con lo spettacolo ma aprendo anche questa parte laboratoriale, per fare in modo che, sia per chi è venuto allo spettacolo, ma anche per chi vive con queste persone, si moltiplichi l’occasione di incontro sul tema, anche quando noi non ci siamo. Abbiamo fatto dunque questi due laboratori e ad agosto ci ospiterà il Teatro Linguaggicreativi e lì inizieremo a dare una prima forma al lavoro. Per ora abbiamo qualcosa ma non è detto che sarà quello che svilupperemo: c’è l’idea di una linea narrativa in cui ci sono un padre e un figlio che in qualche modo subiscono e vivono questa impotenza in modi diversi, e poi vorremmo lavorare sia a partire da alcune suggestioni e immagini che sono nate dai laboratori, sia da immagini o letture che stiamo facendo noi, per creare questa linea narrativa e altri momenti in cui si arriva a indagare il tema in altri modi.

Parliamo un po’ anche di un punto di vista secondo me troppo ignorato nello scarso dibattito che c’è sulla teatralità e sulla cultura teatrale italiana, e cioè il punto di vista pratico: quanto sia difficile vivere di questo, come si faccia, quali siano le difficoltà che si affrontano, quali percorsi che è necessario affrontare, e così via. 

S: Cercando di essere il più concreta possibile, ci sono tantissimi percorsi diversi, tantissime strade diverse. Lo vedo con amici, persone che fanno lo stesso lavoro. A un certo punto molto dipende anche da dove tu ti collochi, da dove ambisci a collocarti. Per noi, ma non solo per noi, vedo che un aspetto sicuramente complesso in questo momento storico (non legato alla pandemia ma che esisteva già prima) è quello legato alla distribuzione. Tu hai uno spettacolo in cui hai investito, soprattutto se è un’autoproduzione o una produzione indipendente, e una volta che ce l’hai non è semplice farlo circolare, proprio per come è pensato il sistema teatrale. La distribuzione è inibita a tanti livelli, a partire da quello istituzionale. Questo è sicuramente un nodo cruciale: andrebbero ripensati molti meccanismi che in questo momento incentivano la produzione e penalizzano la distribuzione. Anche noi come compagnia indipendente ci poniamo ovviamente questa questione. Il buio non è tenero ha fatto 11 date per ora e ci siamo chiesti se era il momento di iniziare a lavorare a un secondo progetto. Ci siamo detti di sì perché avevano questo desiderio artistico, e però sappiamo che il lavoro adesso è anche far vivere il buio perché è nato e sentiamo che nel rapporto con il pubblico sta crescendo; quindi, è importante che continui a vivere. Questo sicuramente è un punto cruciale per chiunque voglia intraprendere un percorso come quello che stiamo cercando di costruire noi.

T: Secondo me la strada della compagnia è necessaria, in parte per un desiderio che ho io di essere attori e autori responsabili di tutta l’operazione artistica, in secondo luogo perché ritengo sia necessario per riuscire ad avere un rapporto vero con la cittadinanza. L’ idea di compagnia che abbiamo noi è quella per cui il rapporto con il territorio non è solo il lato dello spettacolo ma anche quello dei progetti e dei laboratori, per vari motivi: anzitutto perché il teatro ha una modalità che è molto peculiare e che secondo noi all’interno del processo pedagogico può aiutare a far crescere un certo tipo di cittadini; secondariamente perché se hai contatto con il territorio ti rendi conto non solo delle tue esigenze ma anche di quello che hai intorno, rimani all’erta sul mondo, e quindi quello che proporrai a livello di spettacolo sarà qualcosa che davvero riguarda la società. Già c’è poca gente che va a teatro, se poi vede una cosa che non lo riguarda, perché dovrebbe tornare? Quindi non è un momento facile, la strada che stiamo scegliendo noi è quella di un teatro di compagnia che crede nella relazione con il mondo attorno e che cerca di parlare di temi di oggi. Se non fai quello secondo me è un progetto perdente, sia a livello etico sia a livello fattuale.

Sono molto d’accordo. Anche questo mi piacerebbe dirci: non solo e non tanto come discorso del singolo o della singola compagnia, ma proprio come movimento della teatralità (noi parliamo di Italia ma possiamo essere anche più generici se vogliamo), quale può essere la profonda funzione sia intellettualistica sia pratico-operativa del teatro nel mondo di oggi, quali sono le potenzialità di questa arte ancora inesplorate e come può aiutarci a migliorare il sistema complessivo in cui viviamo?

S: Ieri ero alla tavola rotonda della Biennale e una delle domande che hanno fatto agli artisti era se il teatro può cambiare il mondo. Ognuno ha un po’ una sua risposta, quindi non posso fare un discorso generale ma posso dirti quello che penso io, cioè che il teatro sia necessario, perché è un luogo in cui riconosci la realtà ma hai la libertà di non essere completamente immerso dentro e quindi puoi permetterti di farti toccare da cose da cui nella vita normalmente ti difendi, facendoti aprire notevolmente. Questa è una specificità del teatro e uno dei meccanismi che cerchiamo di attivare noi quando pensiamo i nostri spettacoli. Un’altra cosa è il fatto che ci sia anche una forma di lotta. In questo mondo dove il tempo è un bene raro e dove sembra che, se non lo stai investendo in qualcosa di produttivo, stai perdendo qualcosa, il fatto di dedicare un tempo per stare in uno spazio e vedere uno spettacolo e sentire che quel tempo è condiviso – perché è quello che accade negli spettacoli, senti un tempo condiviso e in quel momento si è tutti insieme e il tempo sta passando uguale per tutti – oppure prenderti il tempo come artista di cercare qualcosa, di fare dei tentativi, di fare degli errori, è una forma di protesta in qualche modo. È  una presa di posizione, una forma di lotta che ha molto a che fare con il teatro e il teatro può essere il luogo in cui sostenere questa posizione qua. Adesso mi viene da risponderti così, in ogni caso è una domanda davvero ampia.

T: Sposo quello che ha detto Silvia, per quanto riguarda lo spettacolo. Per quanto riguarda il momento laboratoriale, aggiungo, sinceramente non credo che possa cambiare il mondo. Credo che però possa allenare un certo modo di stare al mondo. Il teatro all’interno dei laboratori sia con adulti che nelle scuole può allenare questa competenza di relazione con quello che hai intorno, che sia qualcun altro o che sia il mondo – questo senz’altro.

S: E così facendo si ha la possibilità di sperimentare una relazione con il tuo corpo, con il mondo emotivo che si apre in certi momenti in un contesto in cui sei protetto, o almeno questo dovrebbe essere. Ovviamente nella misura in cui si ha voglia di farlo, ma negli adolescenti io vedo proprio questa cosa. Anche nella relazione con il corpo: hanno corpi bloccati e accadono delle cose di cui si stupiscono e quindi lì veramente è un momento di esperienza, di scoperta, di ricerca, e questo è molto bello. Già questo vale quel lavoro che stai facendo.

Vi faccio qualche domanda più veloce. Anzitutto: quali sono le vostre fonti di ispirazione?

S: Più che dal punto di vista teorico, dal punto di vista di spettacoli che mi hanno segnata che ho visto recentemente, è stata un’esperienza molto forte, quella di Everywoman al Piccolo. Un po’ per il discorso del tempo condiviso che dicevo prima: lì ho avuto a un certo punto dello spettacolo la sensazione nettissima che si fosse tutti insieme davanti a qualcosa – in questo caso si parlava di morte – tutti insieme davanti a qualcosa da un lato di enorme dall’altro di sacro, ed è stato un momento fortissimo che ho sentito chiaramente. E poi perché c’era una relazione molto diretta con il pubblico, nonostante fosse allo Strehler, quindi uno spazio enorme. E dall’altro lato perché era una forma poetica, dal punto di vista della scrittura. E questo è un tipo di linguaggio che a me affascina moltissimo e che è veramente potente.

T: Io dico Franco Battiato perché è una persona, un artista, che durante tutta la vita è riuscito a coniugare ricerca e rapporto con il pop. Si è sempre evoluto tantissimo a livello artistico, non ci sono album uguali, è un grande sperimentatore ma al tempo stesso riesce ad avere anche una matrice molto popolare nel senso virtuoso del termine. 

È il mio massimo riferimento in così tanti ambiti… insomma, mi trovi molto concorde. Le ultime due cose che vi chiedo e a queste credo che possiate rispondere separatamente. La prima: consigli per un giovane ipotetico desideroso di lavorare nell’ambito della teatralità, quale che sia (attoriale ma anche registico, di scenografia…); la seconda: ammesso, e spero concesso, che da qualche altra parte si possa vedere Il buio non è tenero, 3 motivi per andare a vederlo.

S: Rispondo alla prima. Sicuramente sarà una banalità: andare a teatro. Conosco tante persone che fanno teatro e che lo vogliono fare, ma non vanno a vedere gli spettacoli. Nel senso che andando a teatro ti costruisci un immaginario, un mondo, vedi tante cose diverse… Come si fa a dire di voler fare teatro se non ci si va nemmeno da spettatore? Non sto dicendo che il teatro deve essere solo popolato da addetti ai lavori, chiaramente, ma anche da spettatore cresci.

T: Ne aggiungo un altro: trovarsi dei complici, che non sia per forza una compagnia. Il mondo del teatro, essendo figlio di questa società, è un mondo molto competitivo dove viviamo tutti e dove spesso rischi di sentirti senti solo o inadatto. Trovare dei complici con cui scoprire insieme necessario anche da un punto di vista prettamente artistico, secondo me, la creazione è relazione.
Per quanto riguarda i motivi per andare a vedere Il buio (tra l’altro il 23 luglio saremo [intervista registrata a fine giugno, N.d.R.] a Venezia): il primo è che abbiamo fatto lo sforzo di parlare del mondo di oggi, di noi e delle persone che abbiamo intorno, cercando di schivare la retorica, e credo che ci siamo riusciti.

S: Un secondo motivo è perché penso sia uno spettacolo pieno di sorprese. Ci sono tante cose diverse e tante cose che ti spiazzano, e questo, penso, è perché l’abbiamo voluto costruire così, ma è anche un feedback che abbiamo ricevuto spesso. Penso che sia un viaggio piuttosto intendo da attraversare in mezzo a tante cose che si spostano continuamente.

T: L’ultimo motivo è perché chi viene non è un voyeur, ma viene accolto ed esiste lì con te senza venire forzato a interagire (per esempio non porteremmo mai qualcuno seduto nel pubblico sul palco).

Federico

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